Roberto Bernocco
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Urlo di vittoria
«Signore, balzo iperspaziale riuscito!»tuonava l'ufficiale di navigazione, nel buio della sala comando.
Un attimo dopo l'illuminazione rischiarò ogni postazione della nave insieme ai volti patiti dalle tremende sollecitazioni elettromagnetiche dovute al volo cosmico appena effettuato.
Ma non c'era tempo per dolersi delle tremende sollecitazioni sopportate, lo scenario intorno all'incursore era tutt'altro che quieto.
Tra esplosioni, rottami e corpo divelti, la fregata si era materializzata nel bel mezzo di una furiosa battaglia, pronta ad entrare in campo, tra i pericoli di un balzo effettuato in una porzione di spazio così affollato.
«Posizione!» esordì il comandante, alzandosi in piedi dalla sua poltrona, al centro della cabina.
«Quaranta milioni di chilometri dall'obbiettivo!» replicò l'addetto alla navigazione, intento a triangolare la nuova rotta.
Istintivamente tutte le donne che componevano l'equipaggio diresse il suo sguardo verso lo schermo principale, ricavato dalla parete d'acciaio dello scafo, vetrificato opportunamente.
Di fronte a loro, immensa nonostante la ragguardevole distanza, si parava dinnanzi a loro l'ammiraglia nemica, che tra i bagliori della battaglia continuava imperterrita a respingere gli attacchi, incurante della loro presenza.
«Avanti a tutta forza pilota!» ordinò il comandante alzandosi in piedi.
«Signorsì Signore!» replicò con voce squillante l'ufficiale addetto alla rotta.
E a poco a poco i potenti propulsori atomici dell'incursore cominciarono a imprimere al vascello la massima velocità consentita, prossima a quella della luce, mentre tutt'intorno proseguiva il conflitto senza esclusione di colpi.
Appena raggiunta la velocità di crociera il computer di bordo segnalava la distanza e il tempo stimato di impatto della nave contro il bersaglio più prossimo, ma nessuno dava peso a quel messaggio di pericolo.
Il comandante guardò come sdegnata quell'avvertimento, e preso il comunicatore prese la parola: «Sorelle e compagne di mille battaglie! Figlie di Teheran e di tutto l'Islam! Stiamo per scrivere i nostri nomi tra gli eroi e i santi guerrieri nel nome del Profeta!».
Per qualche istante tutti i presenti in cabina di pilotaggio rivolsero il loro sguardo verso la loro guida, e terminato il breve incoraggiamento, rivolgendo nuovamente lo sguardo verso l'ammiraglia nemica, iniziarono a urlare in berbero come se stessero in resta sui loro destrieri attraversando il deserto in cerca del nemico.
Le loro lingue fremevano come impazzite e per qualche istante sembrava sovrastare ogni cosa, ma una bordata di un cannone laser scosse la nave e zittì tutte loro.
«Situazione!» urlava il comandante, aggrappandosi alla sua poltrona, accusando il colpo.
«Scudi al sessanta percento!» replicò l'addetto ai sistemi di difesa.
«Aumentate la velocità la massimo e predisponete il comando manuale!» rispose il capitano, richiedendo di attivare il sistema dell'autodistruzione.
Ora il vascello mussulmano si stava avvicinando sempre più al suo bersaglio, e le batterie nemiche tentavano di distruggere la nuova minaccia, con raffiche di laser e ondate di missili.
«Lanciate una salva di missili per aprirci un varco e mantenete la rotta!» tuonava il comandante, mentre un tecnico le porgeva il comando dell'autodistruzione.
«Signore, dieci secondi alla zona cieca delle difese nemiche!» replicava l'addetto alla navigazione.
Dopo questa frase, quegli attimi sembravano infiniti, ma passarono mostrando il bagliore dei motori dell'ammiraglia, come un sole immenso che riempiva l'intero schermo della cabina.
«Attivate i filtri solari e concentrate l'energia delle armi sugli scudi!» ordinava il capitano, sedendosi soddisfatto sulla sua poltrona di comando.
Ora non restava che attendere l'impatto, che pareva ancora così lontano, eppure era così prossimo davanti ai loro occhi.
Il comandante riprese il grido di guerra delle sue sorelle, e con lei tutto l'equipaggio la seguì amplificando il suo verso e mischiandolo con il frastuono dell'impatto con la corazza dell'astronave nemica.
Subito dopo tutto fu luce e oblio, mentre sul vascello colpito una serie di esplosioni a catena, coinvolgeva prima il motore a fusione, e poi i restanti scomparti dell'enorme astronave, alla fine avviluppata completamente da bagliori di distruzione.
Poco lontano, sull'Ammiraglia dell'Unione Islamica un messaggero informava l'Imam Iussuf del successo della missione, ma non si rese conto dei suoi pugni chiusi e della sofferenza che serbava dentro di sé.
Era una delle sue figlie ad aver scelto la gloria e la morte in quella missione.
Un attimo dopo l'illuminazione rischiarò ogni postazione della nave insieme ai volti patiti dalle tremende sollecitazioni elettromagnetiche dovute al volo cosmico appena effettuato.
Ma non c'era tempo per dolersi delle tremende sollecitazioni sopportate, lo scenario intorno all'incursore era tutt'altro che quieto.
Tra esplosioni, rottami e corpo divelti, la fregata si era materializzata nel bel mezzo di una furiosa battaglia, pronta ad entrare in campo, tra i pericoli di un balzo effettuato in una porzione di spazio così affollato.
«Posizione!» esordì il comandante, alzandosi in piedi dalla sua poltrona, al centro della cabina.
«Quaranta milioni di chilometri dall'obbiettivo!» replicò l'addetto alla navigazione, intento a triangolare la nuova rotta.
Istintivamente tutte le donne che componevano l'equipaggio diresse il suo sguardo verso lo schermo principale, ricavato dalla parete d'acciaio dello scafo, vetrificato opportunamente.
Di fronte a loro, immensa nonostante la ragguardevole distanza, si parava dinnanzi a loro l'ammiraglia nemica, che tra i bagliori della battaglia continuava imperterrita a respingere gli attacchi, incurante della loro presenza.
«Avanti a tutta forza pilota!» ordinò il comandante alzandosi in piedi.
«Signorsì Signore!» replicò con voce squillante l'ufficiale addetto alla rotta.
E a poco a poco i potenti propulsori atomici dell'incursore cominciarono a imprimere al vascello la massima velocità consentita, prossima a quella della luce, mentre tutt'intorno proseguiva il conflitto senza esclusione di colpi.
Appena raggiunta la velocità di crociera il computer di bordo segnalava la distanza e il tempo stimato di impatto della nave contro il bersaglio più prossimo, ma nessuno dava peso a quel messaggio di pericolo.
Il comandante guardò come sdegnata quell'avvertimento, e preso il comunicatore prese la parola: «Sorelle e compagne di mille battaglie! Figlie di Teheran e di tutto l'Islam! Stiamo per scrivere i nostri nomi tra gli eroi e i santi guerrieri nel nome del Profeta!».
Per qualche istante tutti i presenti in cabina di pilotaggio rivolsero il loro sguardo verso la loro guida, e terminato il breve incoraggiamento, rivolgendo nuovamente lo sguardo verso l'ammiraglia nemica, iniziarono a urlare in berbero come se stessero in resta sui loro destrieri attraversando il deserto in cerca del nemico.
Le loro lingue fremevano come impazzite e per qualche istante sembrava sovrastare ogni cosa, ma una bordata di un cannone laser scosse la nave e zittì tutte loro.
«Situazione!» urlava il comandante, aggrappandosi alla sua poltrona, accusando il colpo.
«Scudi al sessanta percento!» replicò l'addetto ai sistemi di difesa.
«Aumentate la velocità la massimo e predisponete il comando manuale!» rispose il capitano, richiedendo di attivare il sistema dell'autodistruzione.
Ora il vascello mussulmano si stava avvicinando sempre più al suo bersaglio, e le batterie nemiche tentavano di distruggere la nuova minaccia, con raffiche di laser e ondate di missili.
«Lanciate una salva di missili per aprirci un varco e mantenete la rotta!» tuonava il comandante, mentre un tecnico le porgeva il comando dell'autodistruzione.
«Signore, dieci secondi alla zona cieca delle difese nemiche!» replicava l'addetto alla navigazione.
Dopo questa frase, quegli attimi sembravano infiniti, ma passarono mostrando il bagliore dei motori dell'ammiraglia, come un sole immenso che riempiva l'intero schermo della cabina.
«Attivate i filtri solari e concentrate l'energia delle armi sugli scudi!» ordinava il capitano, sedendosi soddisfatto sulla sua poltrona di comando.
Ora non restava che attendere l'impatto, che pareva ancora così lontano, eppure era così prossimo davanti ai loro occhi.
Il comandante riprese il grido di guerra delle sue sorelle, e con lei tutto l'equipaggio la seguì amplificando il suo verso e mischiandolo con il frastuono dell'impatto con la corazza dell'astronave nemica.
Subito dopo tutto fu luce e oblio, mentre sul vascello colpito una serie di esplosioni a catena, coinvolgeva prima il motore a fusione, e poi i restanti scomparti dell'enorme astronave, alla fine avviluppata completamente da bagliori di distruzione.
Poco lontano, sull'Ammiraglia dell'Unione Islamica un messaggero informava l'Imam Iussuf del successo della missione, ma non si rese conto dei suoi pugni chiusi e della sofferenza che serbava dentro di sé.
Era una delle sue figlie ad aver scelto la gloria e la morte in quella missione.
L'amore tagliato
Finalmente dopo aver riempito le scorte di acqua della sua carretta dello spazio, Botha si concedeva finalmente una doccia e una rasatura finalmente decente dopo un mese è più di docce soniche per nulla gratificanti.
Ormai era attraccato da un paio di giorni nella base spaziale di San Cirillo, fortificazione religiosa su limitare estremo del Braccio di Orione, e aveva dato fondo agli ultimi crediti incassati dal precedente lavoro, per i viveri e le riparazioni nella sua astronave dopo l’ennesimo inseguimento di un fuggitivo.
Botha questa volta non si poteva lamentare, e ormai con i buoni rapporti che aveva intrapreso con alcuni membri del Concilio delle Fedi il lavoro certo non mancava.
Con tutti gli anni passati a gironzolare in lungo e in largo per la galassia a caccia di uomini e donne in fuga dalla giustizia poteva dirsi quasi un veterano, nonostante non fosse poi così anziano: ma si sa, quando si fa un lavoro pericoloso e al limite della legalità come il suo certo era difficile arrivare vivi e senza troppe ammaccature ai quaranta anni.
Ma il suo pizzetto brizzolato e le prime rughe che segnavano il suo volto tondeggiante risultavano fin troppo generose rispetto a tutto quello che aveva combinato nella sua esistenza di girovago in cerca di guai.
Ma in fondo lui era fatto così, da generazione la sua stirpe bene o male aveva avuto a che fare con la legge, la giustizia, e in vari modi e forme la sua famiglia era sempre finita ad avere a che fare con i criminali, combattendoli e arrestandoli, e lui non faceva differenza.
Questa volta però Botha Smuts, boero dalla punta delle scarpe fino alla sua capoccia pelata, aveva intrapreso una guerra personale contro i cloni e i loro creatori, ed era perfetto strumento nelle mani dei religiosi, desiderosi di far scomparire la piaga dei senz’anima dall’intera galassia.
«Qui abbiamo finito! Ti serve altro?» disse un uomo, addetto al carico dell’acqua dolce nella sua astronave.
«Grazie Bill! Non mi serve altro! E poi non potrei neanche pagartelo, quindi…» rispose Botha, sbucando dalla sua astronave, ancora con l’asciugamano sulla faccia, per ripulirsi dalla schiuma in eccesso.
L’uomo, sganciò il tubo e lo salutò con un sorriso, e se ne andò lasciando il boero con il problema di sempre: cercarsi un lavoro, una taglia per incamerare un po’ di grano.
Tornato dentro Botha si diresse verso la sua cabina, dove avrebbe trovato il terminale di collegamento con la banca dati della base spaziale.
Gli era stato dato un account per la consultazione della banca dati di tutte le persone ricercate dal Concilio delle Fedi, ed era un buon punto di partenza per trovare un nuovo lavoro.
Ma questa volta Botha voleva fare le cose in grande, voleva un incarico redditizio per finanziare un cospicuo investimento nell’acquisto di un nuovo vascello spaziale.
Quello che lo aveva accompagnato ormai da tre anni era piuttosto malconcio e se voleva ancora stare alle costole con i mezzi di ultima generazione aveva bisogno di qualcosa di più moderno e visto che quella in fondo era anche casa sua, rinnovare il suo appartamento sarebbe stato sicuramente un incentivo ulteriore alla nuova cattura.
Svogliatamente Botha iniziava a scorrere, dopo l’autenticazione nel database di smistamento dei criminali in fuga, una lunga fila di nominativi, con al loro fianco il capo d’accusa e l’importo della taglia.
Tutto era molto impersonale e volutamente privo di informazioni dettagliate, almeno in questa prima fase di selezione, ma al boero andava più che bene così, in prima battuta perché c’erano così tanti nominativi che ci avrebbe messo secoli prima di guardarne almeno qualcuno di appetibile e poi perché non era certo lì per fare il giudice o il redentore di anime.
Il suo mestiere era quello di riportare in prigione chi era fuggito, ed era in libertà con sulla testa un capo d’accusa, e se era colpevole o meno sinceramente a lui non doveva interessare più di tanto.
Oltretutto poi avere a che fare con la cattura dei cloni, poteva sembrare persino etico, nobile, in qualche modo giusto, quindi anche dal punto di vista della coscienza, dello scrupolo, Botha non si sentiva nemmeno nel torto a fare quello che faceva per mestiere.
Mentre il boero era alle prese con l’elenco si stava vestendo con qualcosa di pulito e di adatto all’incontro che avrebbe fatto di lì a poco: non poteva prendersi un incarico senza avere l’autorizzazione di un’ufficiale del Concilio che accertasse la sua licenza di cacciatore di taglie e la presa in carico del fuggitivo.
Dopo essersi infilato i pantaloni e gli anfibi e alcuni piccoli coltelli dentro delle tasche nascoste in punti strategici del suo abbigliamento, Botha si concentrò con più attenzione su alcuni ricercati.
Erano quasi tutti cloni di secondo livello, pesci piccoli, per di più fuggiti dalle fila dell’umanità appena scoperta la loro vera natura di esseri immondi e ora senza più una casa, una vita, una famiglia a cui far riferimento, solo perché nati da una relazione tra un clone e un essere umano.
Uomini e donne segnati da un destino ormai infausto, ma che non erano in grado certo di impensierire nessuno in particolare e quindi non così pericolosi e con una taglia di valore sulla testa.
Ma una scheda su tutte sembrava emergere se non altro per il valore economico della taglia: alla vista di quella cifra Botha trasalì.
«E questo chi sarà mai? Sei milioni di crediti galattici, o in alternativa venti chili di lingotti d’oro!» leggeva a voce alta il cacciatore di taglie.
Quella cifra gli avrebbe tranquillamente permesso di acquistare non una ma almeno due astronavi grandi quanto il suo vascello, se non ancora più grandi, ma l’entusiasmo di Botha scemò molto velocemente quando cominciò a prendere in esame con maggiore attenzione la scheda del fuggitivo.
«Ora mi è tutto più chiaro! Ipergene! Ecco perché i religiosi si sono disposti a sborsare così tanto denaro!» commentò il boero, allungandosi sulla sua poltrona e appoggiando i suoi pesanti anfibi sulla sua scrivania.
Quella parola, ipergene, voleva dire solo una cosa: un essere superiore, non solo fisicamente, ma anche nell’addestramento militare e tattico, un soggetto ostico insomma, molto ostico anche per un cacciatore esperto come lui.
Inoltre di questo evaso la scheda riportava poco o nulla, a parte la traccia del DNA per l’identificazione e qualche scarno dettaglio sull’ultima posizione in cui erano state perse le sue tracce.
Una bella gatta da pelare insomma, che chiunque con un poco di cervello come lui non avrebbe minimamente preso in considerazione.
Ma più osservava quella cifra più Botha cominciava a fantasticare su cosa sarebbe voluto dire catturare quel fuggitivo: nuova astronave, scorte di materiale bellico e di viveri per molti mesi, e soprattutto una notorietà senza pari nell’ambiente, che gli avrebbe fruttato molto di più di qualsiasi altra cosa.
Insomma un bel colpo, ma i rischi sembravano veramente troppi per prendere un incarico del genere alla leggera.
Botha estrasse da una delle sue tasche un grosso sigaro, che con tutta calma si accese e si fumò tenendo d’occhio quella scheda scarna ma trasudante di una golosa ricompensa e traboccante di un futuro radioso.
E più aspirava amabilmente e più sembravano dipanarsi nel fumo i suoi tentennamenti nel silenzio della sua cabina, ormai intrisa dell’aroma spesso del tabacco e della nicotina.
D’un tratto, come colto da un fulmine scattò all’impiedi, come richiamato dal suo dovere e spense il mozzicone del suo sigaro mentre si dirigeva a larghi passi verso il comando del Concilio delle Fedi di stanza nella base spaziale.
Botha era ormai da più di mezz'ora che aveva preso la strada per il comando centrale del Concilio delle Fedi di stanza sulla Rajgir, e non era nemmeno a metà strada.
La base spaziale era così imponente e affollata di persone che era sempre difficile muoversi al suo interno.
Un tripudio di uomini e donne indaffarate a svolgere le molteplici attività necessarie al funzionamento della stazione o semplicemente intento ai propri affari, sotto lo sguardo vigile delle forze armate del Concilio, sempre attente allo svolgimento di ogni transazione, che doveva rispettare le regole ferree dei loro credo.
In particolare i Monaci Shaolin e di Tutori di stanza sulla base rispettivamente a difesa all'interno e all'esterno della fortezza spaziale erano un sicuro deterrente per qualsiasi malintenzionato.
Giunto in prossimità del primo posto di guardia presidiato da alcuni monaci nei loro kasāya amaranto, Botha mostrò il suo cartellino di riconoscimento, rilasciato dal Concilio delle Fedi, e attese le operazioni di riconoscimento.
«Con chi deve parlare?» gli tuonò contro una dei due monaci, con voce profonda.
«Con il comandante! Dovrei prendere in consegna un incarico!» rispose il boero per nulla intimorito.
«Molto bene! Puoi passare! Il comandante ti potrà ricevere dopo aver terminato la sua riunione del mattino!» replicò il guerriero, restituendogli il distintivo.
Di norma le truppe non amavano molto i cacciatori di taglie, ma in questo periodo estremamente difficoltoso per contrastare la piaga dei cloni, si chiudeva un occhio pur di catturarne o ucciderne il maggior numero possibile.
Superato un'altra serie di controlli e un successivo posto di blocco, sempre con le stesse prerogative il cacciatore di taglie giunse finalmente al comando centrale della base spaziale.
Qui, presentatosi a due ufficiali, entrambi Tutori e di sesso femminile, venne accompagnato al cospetto del comandante, il Comandante Du Fei, mentre era assorto in preghiera nel suo piccolo e spoglio ufficio.
Dopo alcuni attimi di imbarazzo da parte dei suoi sottoposti, una delle due donne prese la parola e disse: «É venuto a prendere un incarico questo...».
Ma Du Fei conosceva piuttosto bene Botha e interruppe quasi subito il fratello, intervenendo: «Conosco molto bene questo uomo! Grazie per averlo accompagnato! Ora potete andare!».
I due ufficiali salutarono il comandante e li lasciarono soli, chiudendo debitamente la pesante porta metallica trovata spalancata al loro arrivo.
«Ma potevi contattarmi! Avresti evitato tutta la trafila fino a qui Botha!» disse Du Fei contento di vederlo.
Si erano conosciuti molto anni prima durante le sanguinose battaglie nel Braccio del Cigno, contro la Galaxiacorp Kama, e si erano persi di vista per un po' di tempo, prima di rincontrarsi sulla Rajgir condividendo da diverse angolazioni, la lotta contro il crimine.
«So che sei sempre impegnato e poi questa é una faccenda di lavoro, tu mi capisci...» rispose il boero accomodandosi dietro invito del monaco.
«Allora sei qui per lavoro! E quale sarebbe l'incarico che vuoi assumerti?» chiese il comandante con una nota quasi divertita.
«Questa!» rispose Botha, estraendo un'annotazione riportata di suo pugno su un banale foglio.
Du Fei prese quel codice e lo inserì nel suo terminale, unico oggetto tecnologico nella stanza, ma appena vista la scheda mutò subito espressione, appena compreso quale era il ricercato che voleva catturare il suo conoscente.
«Ma cosa c'é? Sembra che hai visto un fantasma?» gli chiese preoccupato Botha, vedendolo rabbuiarsi.
«Peggio! Ho visto un incubo! E uno dei peggiori di questa galassia!» replicò il comandante piuttosto contrariato.
«Certo non deve essere una passeggiata visto quello che la pagate, ma adesso...» provò a sminuire la cosa il boero ma venne subito interrotto dal monaco che lo incalzò esclamando: «Tu non ti rendi conto di che cosa sono questi esseri! Sono il peggio che la genetica abbia mai prodotto! Non sono solo più forti, ma sono più veloci più abili e spesso addestrati a compiere missioni altamente specializzate e rischiose!».
«Ma scusa, io non ho visto nella scheda queste informazioni! Come fai a dire...» provò ad intervenire Botha, ma venne nuovamente incalzato da Fei, che disse: «Lo so e basta! Non posso dire di più! Quindi se vuoi ascoltare un amico, lascia perdere questo incarico!».
Ci fu un momento di silenzio in cui i due uomini restarono a guardarsi fissi, rinchiusi ognuno nella propria posizione, senza ben capire il perché di questo empasse, poi il cacciatore di taglie estrasse una scatola contenente alcune foglie di un the profumatissimo e le porse al monaco.
Du Fei lo guardò severo, poi dietro le insistenze dello sguardo sornione del boero, accettò l’invito e cominciò a preparare con il piccolo fornello che aveva alle sue spalle una bevanda calda con cui placare la discussione.
Ben presto lo stanzino senza finestre si riempì del gradevole profumo delle foglie portate dal boero e quel locale dalle pareti metalliche spoglie si era trasformato in un giardino odoroso, e i due uomini restarono in silenzio per tutto il tempo sorseggiando lentamente la calda bevanda e riacquistando la calma perduta.
Poi Botha dopo aver terminato di sorseggiare provò a tornare nuovamente sull’argomento che lo aveva portato fin lì: «Davvero non puoi dirmi altro?».
«Certo che non ti arrendi proprio mai! Credi che con un po’ di the tu possa convincermi a lasciarti andare a caccia di questo ricercato?» replicò Du Fei, piuttosto seccato.
«No, però se non provo come faccio a saperlo…» rispose in tutta franchezza il cacciatore di taglie, sfoderando il più audace dei sorrisi.
«Capisco che ti possa far gola questo incarico, ma te lo ripeto, non sarà una passeggiata! Sicuramente sarà un osso molto più duro di quanto tu possa immaginare!» rispose il monaco, che terminò di sorseggiare il suo the.
Passarono di nuovo attimi interminabili, poi Fei si alzò in piedi con la calma e la fermezza del suo rigore monastico, e mettendo una mano sulla spalla sul suo amico disse: «Come vuoi! Ma non vorrei che fosse proprio questa l’ultima volta che ci incontreremo! Lo capisci, vero?».
Botha annuì, e alzandosi in piedi a sua volta, lo abbracciò con gratitudine.
«Qui è l’astronave Kern I che chiede il permesso di decollare! Autorizzazione Tango, Charlie, Due, Tre, Otto!» annunciava alla radio il boero, per l’ultima conferma dalla torre di controllo spaziale.
«Kern I avete il permesso di decollo! Uscita dal portello Sei! E che il Signore sia con voi!» rispondeva una voce metallica, quasi sicuramente automatizzata.
Botha, lentamente e con sapienza cominciò le fasi di decollo del suo vascello e dopo alcuni minuti si ritrovava nello spazio aperto, pronto per un primo balzo iperspaziale, verso le indicazioni recuperate dalla scheda del fuggitivo.
Il cacciatore di taglie si sarebbe dovuto inoltrare nei territori ancora sotto il controllo della Nakashima, potente, ma ormai in declino Galaxiacorp, fin nel cuore del Braccio del Cigno, in zone completamente al di fuori dei territori sotto il controllo del Concilio delle Fedi.
Lì avrebbe cominciato a cercare, come un ago infilato in mezzo a mille pagliai, con il solo ausilio dell’identificativo del DNA del fuggiasco, la sua preda, in mezzo a miliardi di individui.
Ma Botha sapeva come muoversi in quelle lande dimenticate da Dio, e soprattutto aveva ben chiaro in mente come cercare, come scovare i ricercati.
Era il suo mestiere e lo sapeva fare molto bene, e senza troppo crucciarsi delle possibili difficoltà, impostò il pilota automatico e si allungò sulla sua poltrona, nella cabina di pilotaggio, in attesa di raggiungere il primo balzo iperspaziale, fintanto che era in un territorio ancora sufficientemente sicuro.
Nel prosieguo del viaggio dormire sarebbe stato un lusso difficilmente conciliabile con la volontà di sopravvivere alle situazioni di pericolo a cui sarebbe andato incontro, ma già sentiva l’adrenalina che gli saliva su per la schiena donargli quella voglia di vivere, quel senso di controllo della sua esistenza e del suo destino, che lo faceva sentire vivo, presente nell’universo, capace di dare un contributo a qualcosa di più grande di lui.
Quel senso di giustizia che lo aveva sempre motivato a fare ciò che era capace di fare al meglio: il cacciatore di taglie.
Ben presto la base spaziale alle sue spalle era soltanto più un puntino a malapena distinguibile tra le stelle del firmamento e appena effettuato il primo balzo spaziale non sarebbe stato in grado di scorgerla neppure con il più potente dei sensori a lungo raggio.
Ora era solo, solo nello spazio sconfinato, e tra i mille pericoli di un territorio ostile, ma a Botha tutto questo poteva solo spronarlo a proseguire nella sua nuova missione.
Diede una rapida verifica agli strumenti di bordo e alle coordinate appena raggiunte, effettuò una serie di triangolazioni per impostare il nuovo punto in cui avrebbe effettuato un successivo balzo, e impartì gli ordini ai sistemi di bordo per proseguire con la rotta prestabilita.
Lasciati i comandi si diresse nella stanza antistante la cabina di pilotaggio, e iniziò a preparare gli strumenti di caccia: alcuni coltelli, la sua fida pistola laser, provvista di una seconda bocca di fuoco che sparava sia proiettili che cariche esplosive e soprattutto il suo scanner, in grado di rilevare le tracce di DNA del suo fuggitivo, della sua preda su cui aveva ben presto posato i suoi artigli.
Tutto era in regola come sempre, ma un’ulteriore controllo non avrebbe certo fatto male, anzi avrebbe mantenuta alta l’attenzione e la certezza dei propri mezzi, dove si doveva contare solo su se stessi e su quello che si era portati con sé.
Finiti i preparativi Botha ebbe giusto il tempo di trangugiare una scatoletta di carne e una di verdure arrostite, bere un sorso d’acqua, giusto in tempo per accomodarsi nuovamente ai posti di manovra, pronto a seguire le operazioni per il nuovo balzo iperspaziale.
Era talmente abituato a viaggiare nello spazio per lungo tempo e su distanze immense, che tutte le avvertenze sui balzi iperspaziali, come quelle relative al non cibarsi prima di un salto, per evitare nausee ed effetti collaterali, ormai non lo toccavano minimamente.
Ed ecco che dopo essere riaffiorato dal nulla cosmico, nuovamente nello spazio normale, trovarsi di fronte al sistema di Nausei, ormai a migliaia di anni luce di distanza dalla base di Rajgir, e da ogni possibile aiuto.
Sul quarto pianeta avrebbe cominciato la sua caccia, basandosi sulle informazioni che aveva recuperato dalla scheda del prigioniero, e impostò la rotta verso l’interno del sistema.
Il quarto pianeta del sistema non era difforme dai tanti globi disseminati nella galassia conosciuta, brulicante di umanità disordinata e confusa, che aveva come unico obbiettivo quello di sopravvivere, illudersi e sperare in un futuro migliore che molto spesso non arrivava mai.
Un mondo come tanti, senza regole se non quelle del denaro e del potere, dove il più forte aveva sempre la meglio, e la legge era solo un ricordo labile e distorto, ormai senza più veri padroni a governarlo, dopo la disfatta delle Galaxiacorp e il loro declino nel cosmo.
Ora vigeva un’anarchia fatta di poteri più o meno conclamati, che si spartivano i traffici, le risorse e le miniere di quel sassolino dimenticato, un luogo ideale per trovare rifugio, lontano dagli occhi del Concilio delle Fedi e dalle sue milizie.
Ma Botha, minuscolo frammento di quel mondo ligio e ferreo, aggrappato alle regole e ai dogmi di fede, incunearsi in quel pianeta non era certo un problema, e avvicinandosi ai sistemi di riconoscimento automatico del traffico spaziale, fingersi mercante, piuttosto che cercatore di merci pregiate non era certo difficile, anche se erano ben altre le sue intenzioni.
Ma in quella confusione chi avrebbe potuto fare un accertamento adeguato delle sue credenziali?
E così dopo qualche ora di volo a velocità subluce, Botha era tranquillamente atterrato in uno degli spazioporti, come il più innocuo dei turisti in cerca di sollazzarsi con quello che poteva offrirgli Nausei IV.
Ma appena sbarcato il cacciatore di taglie si cominciò a guardare intorno, prima preoccupandosi di rifornire la propria nave, ma scrutando tra gli inservienti e gli uomini di fatica nello spazioporto che aria tirava, se c’era diffidenza verso gli estranei, timori o se come spesso accadeva, il traffico spaziale era tale che un nuovo mercante alla fonda era uno come tanti a cui non dare troppa importanza.
Ben presto Botha si rese conto che nessuno si sarebbe ricordato di lui e della sua faccia dopo nemmeno cinque minuti, tanta era la confusione nell’area di approvvigionamento merci, e di conseguenza non avrebbe insospettito eventuali informatori sparsi nella zona.
Poi, come sua prassi, prese qualche campione di DNA a caso tra i vari soggetti che bazzicavano tutt’intorno, in modo da capire se ci fossero simili del ricercato che potevano in qualche modo averlo nascosto, depistando eventuali sue domande.
Inoltre era un modo per fornire informazioni ad una futura riannessione da parte del Concilio delle Fedi di quel pianeta, una volta che le forze armate dei religiosi si fossero trovati in zona, oppure, se ci fosse stata un’alta concentrazione di senz’anima, non si sarebbe perso molto tempo in chiacchiere: una bella Ordalia avrebbe mondato quel mondo da ogni immonda creazione dell’uomo.
Ma quello non era certo affar suo, lui doveva, da contratto recuperare informazioni se entrava in contatto con nuovi mondo o sistemi poco conosciuti alle forze del Concilio e riferire, senza porsi altre domande, e così fece, raccogliendo un primo assaggio di capelli e altro materiale organico e ritornò sulla sua astronave è per godersi la cena e un po’ di riposo.
Al mattino seguente il suo analizzatore gli avrebbe dato le risposte che cercava e le indicazioni per cominciare a muoversi adeguatamente in quel nuovo mondo.
Il sole stava ormai illuminando da almeno una mezz’ora l’interno della cabina di pilotaggio e Botha era già al lavoro, sorseggiando una razione di caffè solubile, e sfogliando al computer le analisi della notte, oltre ai video giornali locali, alle quotazioni del mercato azionario del pianeta, più altre sciocchezze del posto, giusto per farsi un’idea di dove si trovava e di quali argomenti trattare se qualcuno gli avesse fatto delle domande per attaccare bottone.
Ormai aveva ben chiaro cosa fare per non destare sospetti in giro: fingersi uno del luogo, che conosceva la zona e cosa gli accadeva intorno, giusto per dar l’idea di essere in quel posto da tempo.
Finito il rapido acculturamento, rimase soddisfatto dalla prima verifica dei campioni che non presentavano presenza di cloni sul territorio.
Una bella notizia per lui, ma soprattutto per gli ignari abitanti di quel minuscolo sassolino, che si vedevano senza neanche saperlo classificati da luogo di sterminio a semplice nuova colonia da rassegnare, anche se con le dovute cautele.
Certo le verifiche di Botha avrebbero dovuto subire ulteriori approfondimenti, ma una immediata stroncatura per la popolazione locale avrebbe avuto sicuramente effetti ben peggiori.
Ora non restava al cacciatore di taglie cominciare a girovagare, senza mete particolari, tra i luoghi affollati dove si svolgevano i mercati e i luoghi di passaggio, con gli occhi ben aperti ma soprattutto con il suo rilevatore di DNA sempre attivo.
Certo non poteva sperare di beccare alla prima uscita il sospettato che stava cercando, ma prima di pensare ad azioni mirate, in luoghi dove si poteva nascondere un ricercato, in un mondo a lui sconosciuto, doveva cominciare ad acclimatarsi a quel luogo, conoscerne i segreti.
E quale miglior posto per conoscere una città, un pianeta se non il suo cuore pulsante, i luoghi di commercio e di transito verso le destinazioni esterne dove tutti, chi prima chi dopo, sarebbero dovuti passare?
E così senza nemmeno troppa convinzione Botha iniziò il suo giro, senza chiedere mai informazioni dirette, senza mai importunare nessuno, se non con domande ovvie, di chi si interessa a un articolo piuttosto che a un servizio, e ne valuta il prezzo, la qualità, come un qualsiasi viaggiatore in cerca di affari redditizi.
Ma in quegli incontri, in quei dialoghi il cacciatore di taglie osservava tutto, ogni dettaglio, ogni sfumatura, per arricchire il suo bagaglio di conoscenze del luogo, magari anche fingendo interesse verso gli avventori e le loro mercanzie, e con qualcuno stringere pure affari, accordi, anche solo per ciò che gli era necessario per la permanenza su Nausei IV.
Ma intanto diventava parte di quel mondo, non ne era più estraneo, dissimulando così le sue vere intenzioni: solo così avrebbe ottenuto ciò che gli serviva, con un lento avvicinamento al proprio obbiettivo, fino ad avvicinarsi al suo bersaglio abbastanza da agguantarlo e farlo suo.
La giornata ormai stava volgendo al termine e tra gli scambi di merce e il giro per i centri nevralgici della città Botha si era già fatto un idea di cosa avrebbe dovuto fare all’indomani e probabilmente i giorni seguenti, per avvicinarsi sempre più al suo obbiettivo finale.
Oramai di una cosa era certa, un clone, soprattutto un ipergene, non poteva trovare posto migliore per nascondersi, con tutto quel trambusto che circondava ogni cosa, e che ammantava di schiamazzi, mercanteggiare e svaghi ogni luogo intorno allo spazioporto.
Nessuno si sarebbe accorto di un individuo in quella confusione, nemmeno se fosse fuori misura o con segni di riconoscimento particolari, quindi con i normali metodi di interrogatorio o ricerca nessuno sarebbe giunto a un qualche risultato.
Ma Botha sin dalle prime indicazioni sulle ultime tracce lasciate dal ricercato si era già fatta un’idea di chi avrebbe dovuto catturare, ma vista la posta in gioco, non si era certo tirato indietro nel tentare quel percorso decisamente più lento e meticoloso.
E per alcuni giorni il modus operandi del cacciatore di taglie non cambiò, proseguendo tranquillamente a gironzolare in cerca di merce, cibo, o una qualsivoglia apparecchiatura, pur di poter contattare il maggior numero di persone possibili nei luoghi trafficati del pianeta.
Nel frattempo era anche riuscito a racimolare diverso cibo e materiale utile, grazie agli scambi che aveva costantemente instaurato con i diversi mercanti della città, in virtù del paziente lavorio di contrattazione che instaurava n ogni trattativa.
Il suo vero obbiettivo era passare il tempo, e entrare in un rapporto fiduciario con i locali, quindi perché alla fine non mettere a frutto queste esigenze per concludere qualche buon affare e sopravvivere con quel poco che era ancora riuscito a comprare sulla base spaziale del Concilio da cui era partito.
Ora la sua cambusa e la sua stiva si erano arricchite di molti prodotti locali, tanto che Botha si era deciso a svendere qualcuno degli oggetti più ingombranti per lasciare almeno il passaggio libero tra i corridoi della sua astronave.
Ma proprio quando il suo vero obbiettivo sembrava così lontano ed irraggiungibile una vibrazione nella sua tasca della tuta lo riportò subito a ripensarci.
Mentre era intento a scambiare con uno dei mercanti del posto una bobina di un motore a fusione con dei componenti per il motore iperspaziale il suo segnalatore di DNA si attivò, avvisandolo della presenza del sospettato nel raggio di cento metri.
Botha, come preso da un raptus prese il segnalatore e osservò sul suo display che il ricercato si stava spostando fuori dal raggio d’azione del segnalatore, ma che probabilmente si stava spostando a piedi verso lo spazioporto.
Senza troppi convenevoli il boero lasciò il mercante e la sua merce e si incamminò spedito tra la folla all’inseguimento, controllando sul segnalatore la direzione del fuggitivo, e cercando di avvicinarsi a lui senza farsi scoprire.
Sentiva in quegli attimi il suo cuore battere a mille e la tensione farsi grande, ma con essa la gioia di sentire premiata la sua costanza.
Ora il soggetto si era fermato e Botha ne approfittò per avvicinarsi ulteriormente e scorgere finalmente il suo bersaglio, ma c’era troppa confusione e il segnalatore non riusciva a distinguere in modo preciso tra tutte quelle persone il sospettato.
Doveva avvicinarsi di più ed entrare in azione solo quando fosse stato sicuro di aver individuato il suo bersaglio, non poteva sbagliare, o peggio farsi scoprire, e mentre si arrovellava tra l’ansia e i suoi sensi amplificati dalla tensione del momento, il soggetto che stava inseguendo prese a muoversi nuovamente.
Ricominciò la caccia a distanza tra la folla interessata alle mercanzie e i passanti e i turisti del vicino spazioporto, fino a che il fuggiasco non entrò in uno dei locali prospicienti alla piazza centrale del mercato.
Botha si addentrò nel locale, che scendeva di qualche gradino rispetto al piano stradale, in un locale non troppo illuminato e fumoso, che sembrava uscito da una penna di uno scrittore ottocentesco.
C’erano diversi avventori che si stavano servendo ai tavoli e al bancone principale del bar, mentre il chiasso e la musica amplificavano la confusione.
Botha ora, cercando di non farsi notare, si aiutava ad individuare con il segnalatore l’esatta posizione del fuggiasco, e lentamente passeggiando tra i tavoli provava ad avvicinarsi a lui.
Sicuramente si era fermato davanti al bancone, ma la folla impediva ancora al cacciatore di taglie di capire dove si trovava esattamente e al boero non restava altro che sedersi su uno dei trespoli del bar e guardarsi intorno nella speranza di da qualche dettaglio chi poteva essere il fuggitivo.
Sarebbe bastato uno sguardo smarrito, colpevole, e Botha si sarebbe subito reso conto su chi doveva puntare, e magari proseguire fuori dal locale l’inseguimento per essere certo di aver inquadrato il bersaglio.
Ma proprio mentre la sua attenzione era rivolta alla sua sinistra , avventore alla sua destra finì la consumazione e si alzò dal suo trespolo lasciando uno spazio vuoto e liberando la visuale.
Botha istintivamente si girò da quella parte e incrociò lo sguardo casualmente sulla persona che aveva di fronte a sé, restandone completamente rapito: era una donna, e che donna.
I suoi occhi erano di un azzurro glaciale, incorniciati in un viso aggraziato, ma dai lineamenti squadrati, i capelli biondi tirati all’indietro, che terminavano di completare una vera e propria opera d’arte.
Botha non era certo un tipo che si perdeva dietro una donna, soprattutto quando era in caccia di un evaso, ma questa volta non seppe resistere alle grazie di quella sconosciuta, ma ebbe la appena la forza di pronunciare un debole: «Salve…» coperto dai rumori del locale.
«Che hai da guardare? Non hai mai visto una donna in vita tua?» sbottò la donna, rivolgendosi a lui imbambolato.
«Così no!» ebbe la forza di replicare Botha, letteralmente estasiato.
La donna si mise a ridere, divertita per la sincerità dello sconosciuto e alzando la mano destra invitò il barista a portare due ordinazioni, che rapidamente arrivarono sul bancone.
Botha non riusciva a staccare lo sguardo da quella donna, ne era come rapito, attratto in modo inspiegabile, dimenticandosi completamente perché era in quel locale, e cosa stava cercando in quel momento.
Prese senza guardare il cocktail e mentre lo trangugiava continuava a scrutare da dietro il bicchiere la donna, avvolta in un vestito lungo con un cappuccio, ampio e poco appariscente, che non mostrava nulla del suo corpo.
Solo le braccia, e le mani lunghe ed affusolate si potevano scorgere sotto la cappa che la avvolgeva quasi completamente.
«Balliamo?» chiese la donna, dopo aver sorseggiato appena al sua ordinazione.
Botha non rispose neppure, le prese la mano, e la seguì verso un’area del locale dove la musica era più forte e il pavimento lampeggiava di colori intermittenti.
Appena venne afferrato dalla donna il boero provò come una scossa, un sussulto nel sentire quella mano gentile, calda, anche se stranamente vigorosa, come se quella strana attrazione si intensificasse ulteriormente.
I due si trovarono ben presto in mezzo alla pista, tra altre persone che ballavano in maniera confusa, e la donna iniziò ad ancheggiare lentamente, alzando le braccia al soffitto, seguendo un ritmo lento, tutto suo.
Botha non era per nulla abituato a ballare e semplicemente iniziò ad ondeggiare come un albero colpito dal vento, senza alcuna grazia, seguendo appena la melodia della musica elettronica, mentre continuava a seguire le movenze della donna.
Ora la mantella, aperta sul davanti, mostrava un vestito semplice lungo, minimamente scollato, ma che evidenziava i fianchi aggraziati e le forme femminili della donna, non particolarmente accentuate, apparentemente normali, ma intriganti sotto il nero dell’abito e la sinuosità dei movimenti.
Botha tra gli spintoni degli improbabili ballerini si ricordò quasi per caso di controllare il segnalatore e con sua grande sorpresa vide che il marcatore indicava proprio la persona davanti a lui.
Quella donna era il uso fuggiasco, l’ipergene, la pericolosa minaccia del Concilio.
«Ma come è possibile…» pensò fulmineo il cacciatore di taglie, ritornando con lo sguardo verso la donna.
Proprio mentre Botha stava combattendo tra l’istinto di catturare il clone appena scoperto e il suo stupore, un tizio, che ballava vicino a loro, provò ad attaccare bottone con la donna, provando a metterli una mano sul sedere e gridando: «Ehi! Vieni qui! Cosa ci fai tutta sola! Vieni e balla con me!».
Il boero come preso da un impulso di gelosia, istintivamente diede un pugno sul naso del buzzurro, facendolo indietreggiare di un paio di passi, con le mani sul volto sanguinante.
Dietro di lui due compari, che non si erano subito resi conto di cosa stava accadendo, si girarono verso Botha, per tentare di vendicare l’amico, ma i rapidi colpi del cacciatore di taglie, abituato a combattere anche a mani nude, fecero capitombolare i due malcapitati su altri astanti.
Ben presto la sala da ballo si trasformò in un campo di battaglia, e Botha, seguito dalla donna, si fece largo verso l’uscita, mentre i buttafuori del locale tentavano di sedare i più scalmanati.
I due riuscirono alla fine ad uscirne praticamente illesi, giusto in tempo prima che le forze dell’ordine locali si facevano largo a colpi di manganello tra la bolgia della scazzottata per calmare gli animi.
Dopo una breve corsa il cacciatore di taglie e la sua preda si ritrovarono mano nella mano sotto il chiarore del firmamento, tra la confusione della via piena di vetrine e astanti.
In quel momento però, per loro non sembrava esserci nessuno, in mezzo a tutta quella confusione, e quel contatto, quella leggera stretta di mano, che li aveva legati in modo quasi indissolubile.
«Grazie…» disse ancora la donna, ansimante per la corsa.
Botha non rispose, se non con un bacio, prima tenero, dolce, poi sempre più appassionato.
La donna si lasciò andare ben presto alle effusioni dell’uomo, abbracciandolo e ricambiandolo a sua volta, poi si interruppe e gli bisbigliò: «Ma non sai nemmeno il mio nome, e già vuoi andare al sodo… Vedo che non perdi tempo. Comunque io mi chiamo Natasha!».
E i due ripresero a baciarsi, in mezzo ai passanti ignari di quel sentimento appena sbocciato.
Ma tanto ardore non poteva essere spento in una pubblica via, e ubriacati da quella passione così improvvisa i due amanti ben presto raggiunsero lo spazioporto e l’astronave di Botha, dove poter finalmente placare la loro sete d’amore.
Il cacciatore di taglie era completamente frastornato, in balia di quegli occhi di quelle mani, di quel corpo che non si limitava solo a dargli piacere, ma lo appagava dentro, dandogli tutto quello che in una vita non aveva mai cercato o ottenuto da un rapporto.
E tutto in un vortice di sensazioni, ardore, che non rammentava di aver mai provato prima, in barba alla sua vita avventurosa e piena di incontri.
La missione, la taglia e tutti i suoi propositi erano naufragati in quegli occhi, in quel corpo, in quel mare di assoluta passione, che proseguì senza sosta per il resto della notte.
Botha si era alzato presto, lasciando il suo amante a dormire beatamente, osservandola di tanto in tanto, mentre preparava una ricca colazione, ancora incredulo per i fatti accaduti quella notte.
Si rendeva conto di cosa stava accadendo dentro di sé ma non riusciva a fermare quell’impulso irrefrenabile, quel desiderio di lei, sopra ogni cosa, persino sopra l’incredibile taglia che quella misteriosa ipergene aveva sulla testa.
Ma il pensiero di riscattare quel bottino al cacciatore di taglie non riuscì minimamente a scalfire le sue bramosie d’amore che in quel momento lo animavano.
«La colazione è pronta, dormigliona!» disse Botha con tono divertito.
Natasha si rigirò nel letto, tentando di rifuggire quel richiamo, ma poi gli odori di caffè e di soffritto la convinsero ad avvicinarsi al cibo.
«Buongiorno…» rispose la donna, ancora assonnata, e avvicinandosi al vassoio, diede un bacio sulla guancia a Botha.
L’uomo non resistette a quell’innocente richiamo e restituì con maggior veemenza la tenerezza appena ricevuta.
L’ardore continuò a consumarsi, tra una pietanza e l’altra dell’abbondante colazione, fino a consumarsi all’unisono, tra le effusioni e le parole dolci di un amore appena sbocciato.
Decisi a rivestirsi per andare incontro ad un nuovo giorno, i due amanti uscirono festanti dall’astronave, spensierati alla vista del sole che alto ormai si era levato sullo spazioporto e aveva cominciato ad illuminare dai boccaporti da diverso tempo tutte le cabine.
Ma proprio mentre i due uscirono dal portellone principale della Kern I lo spettacolo che si trovarono ad affrontare li fece ripiombare immediatamente nella nuda realtà.
Un gruppo armato di Tutori, tutte donne e in tenuta da battaglia, era schierato armi in pugno a semicerchio di fronte all’ingresso ed era lì ad attenderli immobile in attesa del loro arrivo, come se sapessero perfettamente che il fuggitivo e il cacciatore di taglie fossero all’interno dell’astronave.
Botha si rese conto di essere in trappola, ma non ebbe il minimo dubbio, ed estrasse la sua pistola laser al grido: «Scappa!».
Ma fu tutto inutile.
Un nugolo vorticante di raggi laser investì i due amanti carbonizzandoli in pochi istanti, non dando il tempo ai due amanti di sfuggire al proprio infausto destino.
Senza nemmeno perdere tempo a controllare lo stato dei cadaveri il capo della squadra, con il proprio comunicatore, si mise in contatto con l’ammiraglia della flotta buddista, in orbita geostazionaria sul pianeta ed esclamò: «Missione compiuta! Senz’anima terminata!».
«E il cacciatore di taglie?» domandava l’interlocutore dall’altro capo del comunicatore.
«Si è opposto alla cattura ed è caduto sotto il fuoco laser!» rispose laconico la comandante, mentre il resto della squadra si stava già adoperando a ricomporre le ceneri dell’uomo.
L’ufficiale che ricevette la comunicazione a bordo dell’ammiraglia, nel chiudere la comunicazione, sospirò mesto, apprestandosi a dare notizia al suo comandante, mentre attraversava la cala comando, tra monaci e tutori indaffarati nelle operazioni di navigazione e coordinamento della forza di colonizzazione.
L’ufficiale arrivò ben presto nella cabina del comandante, da dove gli effluvi dell’incenso stavano diffondendosi per il corridoio vuoto e appena giunto di fronte alla porta vuota, dopo un saluto militare, esordì dicendo: : «La missione si è svolta come aveva previsto!».
Du Fei era rimasto impassibile, seduto di fronte a un piccolo altarino, dove, di fronte ad una piccola statua del Buddha, campeggiava una foto di Botha Smuts, attorniata da alcuni bastoncini di incenso quasi completamente consumati, mentre il suo mantra di preghiera, appena percettibile si diffondeva accompagnando i fumi dell’incenso.
«Ogni cosa è andata secondo il suo piano! Grazie al composto disciolto nel thè siamo riusciti a seguire a distanza il cacciatore di taglie, che dopo poco ci ha portati dritto verso il senz’anima come aveva previsto! Peccato che a causa delle forti emissioni di feromoni di quell’abominio abbia perso completamente il senno!» commentava l’ufficiale sempre impettito sulla porta.
Il monaco continuava impassibile a pregare non replicando all’entusiasmo del suo subalterno, e con un cenno della mano, gentile ma ferma, gli indicò di tornare alle sue mansioni.
Era un modo gentile per richiedere di restare solo, a piangere un amico, caduto per colpa sua in virtù di una missione senza speranza
Ormai era attraccato da un paio di giorni nella base spaziale di San Cirillo, fortificazione religiosa su limitare estremo del Braccio di Orione, e aveva dato fondo agli ultimi crediti incassati dal precedente lavoro, per i viveri e le riparazioni nella sua astronave dopo l’ennesimo inseguimento di un fuggitivo.
Botha questa volta non si poteva lamentare, e ormai con i buoni rapporti che aveva intrapreso con alcuni membri del Concilio delle Fedi il lavoro certo non mancava.
Con tutti gli anni passati a gironzolare in lungo e in largo per la galassia a caccia di uomini e donne in fuga dalla giustizia poteva dirsi quasi un veterano, nonostante non fosse poi così anziano: ma si sa, quando si fa un lavoro pericoloso e al limite della legalità come il suo certo era difficile arrivare vivi e senza troppe ammaccature ai quaranta anni.
Ma il suo pizzetto brizzolato e le prime rughe che segnavano il suo volto tondeggiante risultavano fin troppo generose rispetto a tutto quello che aveva combinato nella sua esistenza di girovago in cerca di guai.
Ma in fondo lui era fatto così, da generazione la sua stirpe bene o male aveva avuto a che fare con la legge, la giustizia, e in vari modi e forme la sua famiglia era sempre finita ad avere a che fare con i criminali, combattendoli e arrestandoli, e lui non faceva differenza.
Questa volta però Botha Smuts, boero dalla punta delle scarpe fino alla sua capoccia pelata, aveva intrapreso una guerra personale contro i cloni e i loro creatori, ed era perfetto strumento nelle mani dei religiosi, desiderosi di far scomparire la piaga dei senz’anima dall’intera galassia.
«Qui abbiamo finito! Ti serve altro?» disse un uomo, addetto al carico dell’acqua dolce nella sua astronave.
«Grazie Bill! Non mi serve altro! E poi non potrei neanche pagartelo, quindi…» rispose Botha, sbucando dalla sua astronave, ancora con l’asciugamano sulla faccia, per ripulirsi dalla schiuma in eccesso.
L’uomo, sganciò il tubo e lo salutò con un sorriso, e se ne andò lasciando il boero con il problema di sempre: cercarsi un lavoro, una taglia per incamerare un po’ di grano.
Tornato dentro Botha si diresse verso la sua cabina, dove avrebbe trovato il terminale di collegamento con la banca dati della base spaziale.
Gli era stato dato un account per la consultazione della banca dati di tutte le persone ricercate dal Concilio delle Fedi, ed era un buon punto di partenza per trovare un nuovo lavoro.
Ma questa volta Botha voleva fare le cose in grande, voleva un incarico redditizio per finanziare un cospicuo investimento nell’acquisto di un nuovo vascello spaziale.
Quello che lo aveva accompagnato ormai da tre anni era piuttosto malconcio e se voleva ancora stare alle costole con i mezzi di ultima generazione aveva bisogno di qualcosa di più moderno e visto che quella in fondo era anche casa sua, rinnovare il suo appartamento sarebbe stato sicuramente un incentivo ulteriore alla nuova cattura.
Svogliatamente Botha iniziava a scorrere, dopo l’autenticazione nel database di smistamento dei criminali in fuga, una lunga fila di nominativi, con al loro fianco il capo d’accusa e l’importo della taglia.
Tutto era molto impersonale e volutamente privo di informazioni dettagliate, almeno in questa prima fase di selezione, ma al boero andava più che bene così, in prima battuta perché c’erano così tanti nominativi che ci avrebbe messo secoli prima di guardarne almeno qualcuno di appetibile e poi perché non era certo lì per fare il giudice o il redentore di anime.
Il suo mestiere era quello di riportare in prigione chi era fuggito, ed era in libertà con sulla testa un capo d’accusa, e se era colpevole o meno sinceramente a lui non doveva interessare più di tanto.
Oltretutto poi avere a che fare con la cattura dei cloni, poteva sembrare persino etico, nobile, in qualche modo giusto, quindi anche dal punto di vista della coscienza, dello scrupolo, Botha non si sentiva nemmeno nel torto a fare quello che faceva per mestiere.
Mentre il boero era alle prese con l’elenco si stava vestendo con qualcosa di pulito e di adatto all’incontro che avrebbe fatto di lì a poco: non poteva prendersi un incarico senza avere l’autorizzazione di un’ufficiale del Concilio che accertasse la sua licenza di cacciatore di taglie e la presa in carico del fuggitivo.
Dopo essersi infilato i pantaloni e gli anfibi e alcuni piccoli coltelli dentro delle tasche nascoste in punti strategici del suo abbigliamento, Botha si concentrò con più attenzione su alcuni ricercati.
Erano quasi tutti cloni di secondo livello, pesci piccoli, per di più fuggiti dalle fila dell’umanità appena scoperta la loro vera natura di esseri immondi e ora senza più una casa, una vita, una famiglia a cui far riferimento, solo perché nati da una relazione tra un clone e un essere umano.
Uomini e donne segnati da un destino ormai infausto, ma che non erano in grado certo di impensierire nessuno in particolare e quindi non così pericolosi e con una taglia di valore sulla testa.
Ma una scheda su tutte sembrava emergere se non altro per il valore economico della taglia: alla vista di quella cifra Botha trasalì.
«E questo chi sarà mai? Sei milioni di crediti galattici, o in alternativa venti chili di lingotti d’oro!» leggeva a voce alta il cacciatore di taglie.
Quella cifra gli avrebbe tranquillamente permesso di acquistare non una ma almeno due astronavi grandi quanto il suo vascello, se non ancora più grandi, ma l’entusiasmo di Botha scemò molto velocemente quando cominciò a prendere in esame con maggiore attenzione la scheda del fuggitivo.
«Ora mi è tutto più chiaro! Ipergene! Ecco perché i religiosi si sono disposti a sborsare così tanto denaro!» commentò il boero, allungandosi sulla sua poltrona e appoggiando i suoi pesanti anfibi sulla sua scrivania.
Quella parola, ipergene, voleva dire solo una cosa: un essere superiore, non solo fisicamente, ma anche nell’addestramento militare e tattico, un soggetto ostico insomma, molto ostico anche per un cacciatore esperto come lui.
Inoltre di questo evaso la scheda riportava poco o nulla, a parte la traccia del DNA per l’identificazione e qualche scarno dettaglio sull’ultima posizione in cui erano state perse le sue tracce.
Una bella gatta da pelare insomma, che chiunque con un poco di cervello come lui non avrebbe minimamente preso in considerazione.
Ma più osservava quella cifra più Botha cominciava a fantasticare su cosa sarebbe voluto dire catturare quel fuggitivo: nuova astronave, scorte di materiale bellico e di viveri per molti mesi, e soprattutto una notorietà senza pari nell’ambiente, che gli avrebbe fruttato molto di più di qualsiasi altra cosa.
Insomma un bel colpo, ma i rischi sembravano veramente troppi per prendere un incarico del genere alla leggera.
Botha estrasse da una delle sue tasche un grosso sigaro, che con tutta calma si accese e si fumò tenendo d’occhio quella scheda scarna ma trasudante di una golosa ricompensa e traboccante di un futuro radioso.
E più aspirava amabilmente e più sembravano dipanarsi nel fumo i suoi tentennamenti nel silenzio della sua cabina, ormai intrisa dell’aroma spesso del tabacco e della nicotina.
D’un tratto, come colto da un fulmine scattò all’impiedi, come richiamato dal suo dovere e spense il mozzicone del suo sigaro mentre si dirigeva a larghi passi verso il comando del Concilio delle Fedi di stanza nella base spaziale.
Botha era ormai da più di mezz'ora che aveva preso la strada per il comando centrale del Concilio delle Fedi di stanza sulla Rajgir, e non era nemmeno a metà strada.
La base spaziale era così imponente e affollata di persone che era sempre difficile muoversi al suo interno.
Un tripudio di uomini e donne indaffarate a svolgere le molteplici attività necessarie al funzionamento della stazione o semplicemente intento ai propri affari, sotto lo sguardo vigile delle forze armate del Concilio, sempre attente allo svolgimento di ogni transazione, che doveva rispettare le regole ferree dei loro credo.
In particolare i Monaci Shaolin e di Tutori di stanza sulla base rispettivamente a difesa all'interno e all'esterno della fortezza spaziale erano un sicuro deterrente per qualsiasi malintenzionato.
Giunto in prossimità del primo posto di guardia presidiato da alcuni monaci nei loro kasāya amaranto, Botha mostrò il suo cartellino di riconoscimento, rilasciato dal Concilio delle Fedi, e attese le operazioni di riconoscimento.
«Con chi deve parlare?» gli tuonò contro una dei due monaci, con voce profonda.
«Con il comandante! Dovrei prendere in consegna un incarico!» rispose il boero per nulla intimorito.
«Molto bene! Puoi passare! Il comandante ti potrà ricevere dopo aver terminato la sua riunione del mattino!» replicò il guerriero, restituendogli il distintivo.
Di norma le truppe non amavano molto i cacciatori di taglie, ma in questo periodo estremamente difficoltoso per contrastare la piaga dei cloni, si chiudeva un occhio pur di catturarne o ucciderne il maggior numero possibile.
Superato un'altra serie di controlli e un successivo posto di blocco, sempre con le stesse prerogative il cacciatore di taglie giunse finalmente al comando centrale della base spaziale.
Qui, presentatosi a due ufficiali, entrambi Tutori e di sesso femminile, venne accompagnato al cospetto del comandante, il Comandante Du Fei, mentre era assorto in preghiera nel suo piccolo e spoglio ufficio.
Dopo alcuni attimi di imbarazzo da parte dei suoi sottoposti, una delle due donne prese la parola e disse: «É venuto a prendere un incarico questo...».
Ma Du Fei conosceva piuttosto bene Botha e interruppe quasi subito il fratello, intervenendo: «Conosco molto bene questo uomo! Grazie per averlo accompagnato! Ora potete andare!».
I due ufficiali salutarono il comandante e li lasciarono soli, chiudendo debitamente la pesante porta metallica trovata spalancata al loro arrivo.
«Ma potevi contattarmi! Avresti evitato tutta la trafila fino a qui Botha!» disse Du Fei contento di vederlo.
Si erano conosciuti molto anni prima durante le sanguinose battaglie nel Braccio del Cigno, contro la Galaxiacorp Kama, e si erano persi di vista per un po' di tempo, prima di rincontrarsi sulla Rajgir condividendo da diverse angolazioni, la lotta contro il crimine.
«So che sei sempre impegnato e poi questa é una faccenda di lavoro, tu mi capisci...» rispose il boero accomodandosi dietro invito del monaco.
«Allora sei qui per lavoro! E quale sarebbe l'incarico che vuoi assumerti?» chiese il comandante con una nota quasi divertita.
«Questa!» rispose Botha, estraendo un'annotazione riportata di suo pugno su un banale foglio.
Du Fei prese quel codice e lo inserì nel suo terminale, unico oggetto tecnologico nella stanza, ma appena vista la scheda mutò subito espressione, appena compreso quale era il ricercato che voleva catturare il suo conoscente.
«Ma cosa c'é? Sembra che hai visto un fantasma?» gli chiese preoccupato Botha, vedendolo rabbuiarsi.
«Peggio! Ho visto un incubo! E uno dei peggiori di questa galassia!» replicò il comandante piuttosto contrariato.
«Certo non deve essere una passeggiata visto quello che la pagate, ma adesso...» provò a sminuire la cosa il boero ma venne subito interrotto dal monaco che lo incalzò esclamando: «Tu non ti rendi conto di che cosa sono questi esseri! Sono il peggio che la genetica abbia mai prodotto! Non sono solo più forti, ma sono più veloci più abili e spesso addestrati a compiere missioni altamente specializzate e rischiose!».
«Ma scusa, io non ho visto nella scheda queste informazioni! Come fai a dire...» provò ad intervenire Botha, ma venne nuovamente incalzato da Fei, che disse: «Lo so e basta! Non posso dire di più! Quindi se vuoi ascoltare un amico, lascia perdere questo incarico!».
Ci fu un momento di silenzio in cui i due uomini restarono a guardarsi fissi, rinchiusi ognuno nella propria posizione, senza ben capire il perché di questo empasse, poi il cacciatore di taglie estrasse una scatola contenente alcune foglie di un the profumatissimo e le porse al monaco.
Du Fei lo guardò severo, poi dietro le insistenze dello sguardo sornione del boero, accettò l’invito e cominciò a preparare con il piccolo fornello che aveva alle sue spalle una bevanda calda con cui placare la discussione.
Ben presto lo stanzino senza finestre si riempì del gradevole profumo delle foglie portate dal boero e quel locale dalle pareti metalliche spoglie si era trasformato in un giardino odoroso, e i due uomini restarono in silenzio per tutto il tempo sorseggiando lentamente la calda bevanda e riacquistando la calma perduta.
Poi Botha dopo aver terminato di sorseggiare provò a tornare nuovamente sull’argomento che lo aveva portato fin lì: «Davvero non puoi dirmi altro?».
«Certo che non ti arrendi proprio mai! Credi che con un po’ di the tu possa convincermi a lasciarti andare a caccia di questo ricercato?» replicò Du Fei, piuttosto seccato.
«No, però se non provo come faccio a saperlo…» rispose in tutta franchezza il cacciatore di taglie, sfoderando il più audace dei sorrisi.
«Capisco che ti possa far gola questo incarico, ma te lo ripeto, non sarà una passeggiata! Sicuramente sarà un osso molto più duro di quanto tu possa immaginare!» rispose il monaco, che terminò di sorseggiare il suo the.
Passarono di nuovo attimi interminabili, poi Fei si alzò in piedi con la calma e la fermezza del suo rigore monastico, e mettendo una mano sulla spalla sul suo amico disse: «Come vuoi! Ma non vorrei che fosse proprio questa l’ultima volta che ci incontreremo! Lo capisci, vero?».
Botha annuì, e alzandosi in piedi a sua volta, lo abbracciò con gratitudine.
«Qui è l’astronave Kern I che chiede il permesso di decollare! Autorizzazione Tango, Charlie, Due, Tre, Otto!» annunciava alla radio il boero, per l’ultima conferma dalla torre di controllo spaziale.
«Kern I avete il permesso di decollo! Uscita dal portello Sei! E che il Signore sia con voi!» rispondeva una voce metallica, quasi sicuramente automatizzata.
Botha, lentamente e con sapienza cominciò le fasi di decollo del suo vascello e dopo alcuni minuti si ritrovava nello spazio aperto, pronto per un primo balzo iperspaziale, verso le indicazioni recuperate dalla scheda del fuggitivo.
Il cacciatore di taglie si sarebbe dovuto inoltrare nei territori ancora sotto il controllo della Nakashima, potente, ma ormai in declino Galaxiacorp, fin nel cuore del Braccio del Cigno, in zone completamente al di fuori dei territori sotto il controllo del Concilio delle Fedi.
Lì avrebbe cominciato a cercare, come un ago infilato in mezzo a mille pagliai, con il solo ausilio dell’identificativo del DNA del fuggiasco, la sua preda, in mezzo a miliardi di individui.
Ma Botha sapeva come muoversi in quelle lande dimenticate da Dio, e soprattutto aveva ben chiaro in mente come cercare, come scovare i ricercati.
Era il suo mestiere e lo sapeva fare molto bene, e senza troppo crucciarsi delle possibili difficoltà, impostò il pilota automatico e si allungò sulla sua poltrona, nella cabina di pilotaggio, in attesa di raggiungere il primo balzo iperspaziale, fintanto che era in un territorio ancora sufficientemente sicuro.
Nel prosieguo del viaggio dormire sarebbe stato un lusso difficilmente conciliabile con la volontà di sopravvivere alle situazioni di pericolo a cui sarebbe andato incontro, ma già sentiva l’adrenalina che gli saliva su per la schiena donargli quella voglia di vivere, quel senso di controllo della sua esistenza e del suo destino, che lo faceva sentire vivo, presente nell’universo, capace di dare un contributo a qualcosa di più grande di lui.
Quel senso di giustizia che lo aveva sempre motivato a fare ciò che era capace di fare al meglio: il cacciatore di taglie.
Ben presto la base spaziale alle sue spalle era soltanto più un puntino a malapena distinguibile tra le stelle del firmamento e appena effettuato il primo balzo spaziale non sarebbe stato in grado di scorgerla neppure con il più potente dei sensori a lungo raggio.
Ora era solo, solo nello spazio sconfinato, e tra i mille pericoli di un territorio ostile, ma a Botha tutto questo poteva solo spronarlo a proseguire nella sua nuova missione.
Diede una rapida verifica agli strumenti di bordo e alle coordinate appena raggiunte, effettuò una serie di triangolazioni per impostare il nuovo punto in cui avrebbe effettuato un successivo balzo, e impartì gli ordini ai sistemi di bordo per proseguire con la rotta prestabilita.
Lasciati i comandi si diresse nella stanza antistante la cabina di pilotaggio, e iniziò a preparare gli strumenti di caccia: alcuni coltelli, la sua fida pistola laser, provvista di una seconda bocca di fuoco che sparava sia proiettili che cariche esplosive e soprattutto il suo scanner, in grado di rilevare le tracce di DNA del suo fuggitivo, della sua preda su cui aveva ben presto posato i suoi artigli.
Tutto era in regola come sempre, ma un’ulteriore controllo non avrebbe certo fatto male, anzi avrebbe mantenuta alta l’attenzione e la certezza dei propri mezzi, dove si doveva contare solo su se stessi e su quello che si era portati con sé.
Finiti i preparativi Botha ebbe giusto il tempo di trangugiare una scatoletta di carne e una di verdure arrostite, bere un sorso d’acqua, giusto in tempo per accomodarsi nuovamente ai posti di manovra, pronto a seguire le operazioni per il nuovo balzo iperspaziale.
Era talmente abituato a viaggiare nello spazio per lungo tempo e su distanze immense, che tutte le avvertenze sui balzi iperspaziali, come quelle relative al non cibarsi prima di un salto, per evitare nausee ed effetti collaterali, ormai non lo toccavano minimamente.
Ed ecco che dopo essere riaffiorato dal nulla cosmico, nuovamente nello spazio normale, trovarsi di fronte al sistema di Nausei, ormai a migliaia di anni luce di distanza dalla base di Rajgir, e da ogni possibile aiuto.
Sul quarto pianeta avrebbe cominciato la sua caccia, basandosi sulle informazioni che aveva recuperato dalla scheda del prigioniero, e impostò la rotta verso l’interno del sistema.
Il quarto pianeta del sistema non era difforme dai tanti globi disseminati nella galassia conosciuta, brulicante di umanità disordinata e confusa, che aveva come unico obbiettivo quello di sopravvivere, illudersi e sperare in un futuro migliore che molto spesso non arrivava mai.
Un mondo come tanti, senza regole se non quelle del denaro e del potere, dove il più forte aveva sempre la meglio, e la legge era solo un ricordo labile e distorto, ormai senza più veri padroni a governarlo, dopo la disfatta delle Galaxiacorp e il loro declino nel cosmo.
Ora vigeva un’anarchia fatta di poteri più o meno conclamati, che si spartivano i traffici, le risorse e le miniere di quel sassolino dimenticato, un luogo ideale per trovare rifugio, lontano dagli occhi del Concilio delle Fedi e dalle sue milizie.
Ma Botha, minuscolo frammento di quel mondo ligio e ferreo, aggrappato alle regole e ai dogmi di fede, incunearsi in quel pianeta non era certo un problema, e avvicinandosi ai sistemi di riconoscimento automatico del traffico spaziale, fingersi mercante, piuttosto che cercatore di merci pregiate non era certo difficile, anche se erano ben altre le sue intenzioni.
Ma in quella confusione chi avrebbe potuto fare un accertamento adeguato delle sue credenziali?
E così dopo qualche ora di volo a velocità subluce, Botha era tranquillamente atterrato in uno degli spazioporti, come il più innocuo dei turisti in cerca di sollazzarsi con quello che poteva offrirgli Nausei IV.
Ma appena sbarcato il cacciatore di taglie si cominciò a guardare intorno, prima preoccupandosi di rifornire la propria nave, ma scrutando tra gli inservienti e gli uomini di fatica nello spazioporto che aria tirava, se c’era diffidenza verso gli estranei, timori o se come spesso accadeva, il traffico spaziale era tale che un nuovo mercante alla fonda era uno come tanti a cui non dare troppa importanza.
Ben presto Botha si rese conto che nessuno si sarebbe ricordato di lui e della sua faccia dopo nemmeno cinque minuti, tanta era la confusione nell’area di approvvigionamento merci, e di conseguenza non avrebbe insospettito eventuali informatori sparsi nella zona.
Poi, come sua prassi, prese qualche campione di DNA a caso tra i vari soggetti che bazzicavano tutt’intorno, in modo da capire se ci fossero simili del ricercato che potevano in qualche modo averlo nascosto, depistando eventuali sue domande.
Inoltre era un modo per fornire informazioni ad una futura riannessione da parte del Concilio delle Fedi di quel pianeta, una volta che le forze armate dei religiosi si fossero trovati in zona, oppure, se ci fosse stata un’alta concentrazione di senz’anima, non si sarebbe perso molto tempo in chiacchiere: una bella Ordalia avrebbe mondato quel mondo da ogni immonda creazione dell’uomo.
Ma quello non era certo affar suo, lui doveva, da contratto recuperare informazioni se entrava in contatto con nuovi mondo o sistemi poco conosciuti alle forze del Concilio e riferire, senza porsi altre domande, e così fece, raccogliendo un primo assaggio di capelli e altro materiale organico e ritornò sulla sua astronave è per godersi la cena e un po’ di riposo.
Al mattino seguente il suo analizzatore gli avrebbe dato le risposte che cercava e le indicazioni per cominciare a muoversi adeguatamente in quel nuovo mondo.
Il sole stava ormai illuminando da almeno una mezz’ora l’interno della cabina di pilotaggio e Botha era già al lavoro, sorseggiando una razione di caffè solubile, e sfogliando al computer le analisi della notte, oltre ai video giornali locali, alle quotazioni del mercato azionario del pianeta, più altre sciocchezze del posto, giusto per farsi un’idea di dove si trovava e di quali argomenti trattare se qualcuno gli avesse fatto delle domande per attaccare bottone.
Ormai aveva ben chiaro cosa fare per non destare sospetti in giro: fingersi uno del luogo, che conosceva la zona e cosa gli accadeva intorno, giusto per dar l’idea di essere in quel posto da tempo.
Finito il rapido acculturamento, rimase soddisfatto dalla prima verifica dei campioni che non presentavano presenza di cloni sul territorio.
Una bella notizia per lui, ma soprattutto per gli ignari abitanti di quel minuscolo sassolino, che si vedevano senza neanche saperlo classificati da luogo di sterminio a semplice nuova colonia da rassegnare, anche se con le dovute cautele.
Certo le verifiche di Botha avrebbero dovuto subire ulteriori approfondimenti, ma una immediata stroncatura per la popolazione locale avrebbe avuto sicuramente effetti ben peggiori.
Ora non restava al cacciatore di taglie cominciare a girovagare, senza mete particolari, tra i luoghi affollati dove si svolgevano i mercati e i luoghi di passaggio, con gli occhi ben aperti ma soprattutto con il suo rilevatore di DNA sempre attivo.
Certo non poteva sperare di beccare alla prima uscita il sospettato che stava cercando, ma prima di pensare ad azioni mirate, in luoghi dove si poteva nascondere un ricercato, in un mondo a lui sconosciuto, doveva cominciare ad acclimatarsi a quel luogo, conoscerne i segreti.
E quale miglior posto per conoscere una città, un pianeta se non il suo cuore pulsante, i luoghi di commercio e di transito verso le destinazioni esterne dove tutti, chi prima chi dopo, sarebbero dovuti passare?
E così senza nemmeno troppa convinzione Botha iniziò il suo giro, senza chiedere mai informazioni dirette, senza mai importunare nessuno, se non con domande ovvie, di chi si interessa a un articolo piuttosto che a un servizio, e ne valuta il prezzo, la qualità, come un qualsiasi viaggiatore in cerca di affari redditizi.
Ma in quegli incontri, in quei dialoghi il cacciatore di taglie osservava tutto, ogni dettaglio, ogni sfumatura, per arricchire il suo bagaglio di conoscenze del luogo, magari anche fingendo interesse verso gli avventori e le loro mercanzie, e con qualcuno stringere pure affari, accordi, anche solo per ciò che gli era necessario per la permanenza su Nausei IV.
Ma intanto diventava parte di quel mondo, non ne era più estraneo, dissimulando così le sue vere intenzioni: solo così avrebbe ottenuto ciò che gli serviva, con un lento avvicinamento al proprio obbiettivo, fino ad avvicinarsi al suo bersaglio abbastanza da agguantarlo e farlo suo.
La giornata ormai stava volgendo al termine e tra gli scambi di merce e il giro per i centri nevralgici della città Botha si era già fatto un idea di cosa avrebbe dovuto fare all’indomani e probabilmente i giorni seguenti, per avvicinarsi sempre più al suo obbiettivo finale.
Oramai di una cosa era certa, un clone, soprattutto un ipergene, non poteva trovare posto migliore per nascondersi, con tutto quel trambusto che circondava ogni cosa, e che ammantava di schiamazzi, mercanteggiare e svaghi ogni luogo intorno allo spazioporto.
Nessuno si sarebbe accorto di un individuo in quella confusione, nemmeno se fosse fuori misura o con segni di riconoscimento particolari, quindi con i normali metodi di interrogatorio o ricerca nessuno sarebbe giunto a un qualche risultato.
Ma Botha sin dalle prime indicazioni sulle ultime tracce lasciate dal ricercato si era già fatta un’idea di chi avrebbe dovuto catturare, ma vista la posta in gioco, non si era certo tirato indietro nel tentare quel percorso decisamente più lento e meticoloso.
E per alcuni giorni il modus operandi del cacciatore di taglie non cambiò, proseguendo tranquillamente a gironzolare in cerca di merce, cibo, o una qualsivoglia apparecchiatura, pur di poter contattare il maggior numero di persone possibili nei luoghi trafficati del pianeta.
Nel frattempo era anche riuscito a racimolare diverso cibo e materiale utile, grazie agli scambi che aveva costantemente instaurato con i diversi mercanti della città, in virtù del paziente lavorio di contrattazione che instaurava n ogni trattativa.
Il suo vero obbiettivo era passare il tempo, e entrare in un rapporto fiduciario con i locali, quindi perché alla fine non mettere a frutto queste esigenze per concludere qualche buon affare e sopravvivere con quel poco che era ancora riuscito a comprare sulla base spaziale del Concilio da cui era partito.
Ora la sua cambusa e la sua stiva si erano arricchite di molti prodotti locali, tanto che Botha si era deciso a svendere qualcuno degli oggetti più ingombranti per lasciare almeno il passaggio libero tra i corridoi della sua astronave.
Ma proprio quando il suo vero obbiettivo sembrava così lontano ed irraggiungibile una vibrazione nella sua tasca della tuta lo riportò subito a ripensarci.
Mentre era intento a scambiare con uno dei mercanti del posto una bobina di un motore a fusione con dei componenti per il motore iperspaziale il suo segnalatore di DNA si attivò, avvisandolo della presenza del sospettato nel raggio di cento metri.
Botha, come preso da un raptus prese il segnalatore e osservò sul suo display che il ricercato si stava spostando fuori dal raggio d’azione del segnalatore, ma che probabilmente si stava spostando a piedi verso lo spazioporto.
Senza troppi convenevoli il boero lasciò il mercante e la sua merce e si incamminò spedito tra la folla all’inseguimento, controllando sul segnalatore la direzione del fuggitivo, e cercando di avvicinarsi a lui senza farsi scoprire.
Sentiva in quegli attimi il suo cuore battere a mille e la tensione farsi grande, ma con essa la gioia di sentire premiata la sua costanza.
Ora il soggetto si era fermato e Botha ne approfittò per avvicinarsi ulteriormente e scorgere finalmente il suo bersaglio, ma c’era troppa confusione e il segnalatore non riusciva a distinguere in modo preciso tra tutte quelle persone il sospettato.
Doveva avvicinarsi di più ed entrare in azione solo quando fosse stato sicuro di aver individuato il suo bersaglio, non poteva sbagliare, o peggio farsi scoprire, e mentre si arrovellava tra l’ansia e i suoi sensi amplificati dalla tensione del momento, il soggetto che stava inseguendo prese a muoversi nuovamente.
Ricominciò la caccia a distanza tra la folla interessata alle mercanzie e i passanti e i turisti del vicino spazioporto, fino a che il fuggiasco non entrò in uno dei locali prospicienti alla piazza centrale del mercato.
Botha si addentrò nel locale, che scendeva di qualche gradino rispetto al piano stradale, in un locale non troppo illuminato e fumoso, che sembrava uscito da una penna di uno scrittore ottocentesco.
C’erano diversi avventori che si stavano servendo ai tavoli e al bancone principale del bar, mentre il chiasso e la musica amplificavano la confusione.
Botha ora, cercando di non farsi notare, si aiutava ad individuare con il segnalatore l’esatta posizione del fuggiasco, e lentamente passeggiando tra i tavoli provava ad avvicinarsi a lui.
Sicuramente si era fermato davanti al bancone, ma la folla impediva ancora al cacciatore di taglie di capire dove si trovava esattamente e al boero non restava altro che sedersi su uno dei trespoli del bar e guardarsi intorno nella speranza di da qualche dettaglio chi poteva essere il fuggitivo.
Sarebbe bastato uno sguardo smarrito, colpevole, e Botha si sarebbe subito reso conto su chi doveva puntare, e magari proseguire fuori dal locale l’inseguimento per essere certo di aver inquadrato il bersaglio.
Ma proprio mentre la sua attenzione era rivolta alla sua sinistra , avventore alla sua destra finì la consumazione e si alzò dal suo trespolo lasciando uno spazio vuoto e liberando la visuale.
Botha istintivamente si girò da quella parte e incrociò lo sguardo casualmente sulla persona che aveva di fronte a sé, restandone completamente rapito: era una donna, e che donna.
I suoi occhi erano di un azzurro glaciale, incorniciati in un viso aggraziato, ma dai lineamenti squadrati, i capelli biondi tirati all’indietro, che terminavano di completare una vera e propria opera d’arte.
Botha non era certo un tipo che si perdeva dietro una donna, soprattutto quando era in caccia di un evaso, ma questa volta non seppe resistere alle grazie di quella sconosciuta, ma ebbe la appena la forza di pronunciare un debole: «Salve…» coperto dai rumori del locale.
«Che hai da guardare? Non hai mai visto una donna in vita tua?» sbottò la donna, rivolgendosi a lui imbambolato.
«Così no!» ebbe la forza di replicare Botha, letteralmente estasiato.
La donna si mise a ridere, divertita per la sincerità dello sconosciuto e alzando la mano destra invitò il barista a portare due ordinazioni, che rapidamente arrivarono sul bancone.
Botha non riusciva a staccare lo sguardo da quella donna, ne era come rapito, attratto in modo inspiegabile, dimenticandosi completamente perché era in quel locale, e cosa stava cercando in quel momento.
Prese senza guardare il cocktail e mentre lo trangugiava continuava a scrutare da dietro il bicchiere la donna, avvolta in un vestito lungo con un cappuccio, ampio e poco appariscente, che non mostrava nulla del suo corpo.
Solo le braccia, e le mani lunghe ed affusolate si potevano scorgere sotto la cappa che la avvolgeva quasi completamente.
«Balliamo?» chiese la donna, dopo aver sorseggiato appena al sua ordinazione.
Botha non rispose neppure, le prese la mano, e la seguì verso un’area del locale dove la musica era più forte e il pavimento lampeggiava di colori intermittenti.
Appena venne afferrato dalla donna il boero provò come una scossa, un sussulto nel sentire quella mano gentile, calda, anche se stranamente vigorosa, come se quella strana attrazione si intensificasse ulteriormente.
I due si trovarono ben presto in mezzo alla pista, tra altre persone che ballavano in maniera confusa, e la donna iniziò ad ancheggiare lentamente, alzando le braccia al soffitto, seguendo un ritmo lento, tutto suo.
Botha non era per nulla abituato a ballare e semplicemente iniziò ad ondeggiare come un albero colpito dal vento, senza alcuna grazia, seguendo appena la melodia della musica elettronica, mentre continuava a seguire le movenze della donna.
Ora la mantella, aperta sul davanti, mostrava un vestito semplice lungo, minimamente scollato, ma che evidenziava i fianchi aggraziati e le forme femminili della donna, non particolarmente accentuate, apparentemente normali, ma intriganti sotto il nero dell’abito e la sinuosità dei movimenti.
Botha tra gli spintoni degli improbabili ballerini si ricordò quasi per caso di controllare il segnalatore e con sua grande sorpresa vide che il marcatore indicava proprio la persona davanti a lui.
Quella donna era il uso fuggiasco, l’ipergene, la pericolosa minaccia del Concilio.
«Ma come è possibile…» pensò fulmineo il cacciatore di taglie, ritornando con lo sguardo verso la donna.
Proprio mentre Botha stava combattendo tra l’istinto di catturare il clone appena scoperto e il suo stupore, un tizio, che ballava vicino a loro, provò ad attaccare bottone con la donna, provando a metterli una mano sul sedere e gridando: «Ehi! Vieni qui! Cosa ci fai tutta sola! Vieni e balla con me!».
Il boero come preso da un impulso di gelosia, istintivamente diede un pugno sul naso del buzzurro, facendolo indietreggiare di un paio di passi, con le mani sul volto sanguinante.
Dietro di lui due compari, che non si erano subito resi conto di cosa stava accadendo, si girarono verso Botha, per tentare di vendicare l’amico, ma i rapidi colpi del cacciatore di taglie, abituato a combattere anche a mani nude, fecero capitombolare i due malcapitati su altri astanti.
Ben presto la sala da ballo si trasformò in un campo di battaglia, e Botha, seguito dalla donna, si fece largo verso l’uscita, mentre i buttafuori del locale tentavano di sedare i più scalmanati.
I due riuscirono alla fine ad uscirne praticamente illesi, giusto in tempo prima che le forze dell’ordine locali si facevano largo a colpi di manganello tra la bolgia della scazzottata per calmare gli animi.
Dopo una breve corsa il cacciatore di taglie e la sua preda si ritrovarono mano nella mano sotto il chiarore del firmamento, tra la confusione della via piena di vetrine e astanti.
In quel momento però, per loro non sembrava esserci nessuno, in mezzo a tutta quella confusione, e quel contatto, quella leggera stretta di mano, che li aveva legati in modo quasi indissolubile.
«Grazie…» disse ancora la donna, ansimante per la corsa.
Botha non rispose, se non con un bacio, prima tenero, dolce, poi sempre più appassionato.
La donna si lasciò andare ben presto alle effusioni dell’uomo, abbracciandolo e ricambiandolo a sua volta, poi si interruppe e gli bisbigliò: «Ma non sai nemmeno il mio nome, e già vuoi andare al sodo… Vedo che non perdi tempo. Comunque io mi chiamo Natasha!».
E i due ripresero a baciarsi, in mezzo ai passanti ignari di quel sentimento appena sbocciato.
Ma tanto ardore non poteva essere spento in una pubblica via, e ubriacati da quella passione così improvvisa i due amanti ben presto raggiunsero lo spazioporto e l’astronave di Botha, dove poter finalmente placare la loro sete d’amore.
Il cacciatore di taglie era completamente frastornato, in balia di quegli occhi di quelle mani, di quel corpo che non si limitava solo a dargli piacere, ma lo appagava dentro, dandogli tutto quello che in una vita non aveva mai cercato o ottenuto da un rapporto.
E tutto in un vortice di sensazioni, ardore, che non rammentava di aver mai provato prima, in barba alla sua vita avventurosa e piena di incontri.
La missione, la taglia e tutti i suoi propositi erano naufragati in quegli occhi, in quel corpo, in quel mare di assoluta passione, che proseguì senza sosta per il resto della notte.
Botha si era alzato presto, lasciando il suo amante a dormire beatamente, osservandola di tanto in tanto, mentre preparava una ricca colazione, ancora incredulo per i fatti accaduti quella notte.
Si rendeva conto di cosa stava accadendo dentro di sé ma non riusciva a fermare quell’impulso irrefrenabile, quel desiderio di lei, sopra ogni cosa, persino sopra l’incredibile taglia che quella misteriosa ipergene aveva sulla testa.
Ma il pensiero di riscattare quel bottino al cacciatore di taglie non riuscì minimamente a scalfire le sue bramosie d’amore che in quel momento lo animavano.
«La colazione è pronta, dormigliona!» disse Botha con tono divertito.
Natasha si rigirò nel letto, tentando di rifuggire quel richiamo, ma poi gli odori di caffè e di soffritto la convinsero ad avvicinarsi al cibo.
«Buongiorno…» rispose la donna, ancora assonnata, e avvicinandosi al vassoio, diede un bacio sulla guancia a Botha.
L’uomo non resistette a quell’innocente richiamo e restituì con maggior veemenza la tenerezza appena ricevuta.
L’ardore continuò a consumarsi, tra una pietanza e l’altra dell’abbondante colazione, fino a consumarsi all’unisono, tra le effusioni e le parole dolci di un amore appena sbocciato.
Decisi a rivestirsi per andare incontro ad un nuovo giorno, i due amanti uscirono festanti dall’astronave, spensierati alla vista del sole che alto ormai si era levato sullo spazioporto e aveva cominciato ad illuminare dai boccaporti da diverso tempo tutte le cabine.
Ma proprio mentre i due uscirono dal portellone principale della Kern I lo spettacolo che si trovarono ad affrontare li fece ripiombare immediatamente nella nuda realtà.
Un gruppo armato di Tutori, tutte donne e in tenuta da battaglia, era schierato armi in pugno a semicerchio di fronte all’ingresso ed era lì ad attenderli immobile in attesa del loro arrivo, come se sapessero perfettamente che il fuggitivo e il cacciatore di taglie fossero all’interno dell’astronave.
Botha si rese conto di essere in trappola, ma non ebbe il minimo dubbio, ed estrasse la sua pistola laser al grido: «Scappa!».
Ma fu tutto inutile.
Un nugolo vorticante di raggi laser investì i due amanti carbonizzandoli in pochi istanti, non dando il tempo ai due amanti di sfuggire al proprio infausto destino.
Senza nemmeno perdere tempo a controllare lo stato dei cadaveri il capo della squadra, con il proprio comunicatore, si mise in contatto con l’ammiraglia della flotta buddista, in orbita geostazionaria sul pianeta ed esclamò: «Missione compiuta! Senz’anima terminata!».
«E il cacciatore di taglie?» domandava l’interlocutore dall’altro capo del comunicatore.
«Si è opposto alla cattura ed è caduto sotto il fuoco laser!» rispose laconico la comandante, mentre il resto della squadra si stava già adoperando a ricomporre le ceneri dell’uomo.
L’ufficiale che ricevette la comunicazione a bordo dell’ammiraglia, nel chiudere la comunicazione, sospirò mesto, apprestandosi a dare notizia al suo comandante, mentre attraversava la cala comando, tra monaci e tutori indaffarati nelle operazioni di navigazione e coordinamento della forza di colonizzazione.
L’ufficiale arrivò ben presto nella cabina del comandante, da dove gli effluvi dell’incenso stavano diffondendosi per il corridoio vuoto e appena giunto di fronte alla porta vuota, dopo un saluto militare, esordì dicendo: : «La missione si è svolta come aveva previsto!».
Du Fei era rimasto impassibile, seduto di fronte a un piccolo altarino, dove, di fronte ad una piccola statua del Buddha, campeggiava una foto di Botha Smuts, attorniata da alcuni bastoncini di incenso quasi completamente consumati, mentre il suo mantra di preghiera, appena percettibile si diffondeva accompagnando i fumi dell’incenso.
«Ogni cosa è andata secondo il suo piano! Grazie al composto disciolto nel thè siamo riusciti a seguire a distanza il cacciatore di taglie, che dopo poco ci ha portati dritto verso il senz’anima come aveva previsto! Peccato che a causa delle forti emissioni di feromoni di quell’abominio abbia perso completamente il senno!» commentava l’ufficiale sempre impettito sulla porta.
Il monaco continuava impassibile a pregare non replicando all’entusiasmo del suo subalterno, e con un cenno della mano, gentile ma ferma, gli indicò di tornare alle sue mansioni.
Era un modo gentile per richiedere di restare solo, a piangere un amico, caduto per colpa sua in virtù di una missione senza speranza
La scoperta
Il caldo opprimente e il sole a picco sull'accampamento non stavano rallentando i lavori di scavo, guidati con silenziosa solerzia da alcuni benedettini, dediti, con attrezzi di vario tipo, ad estrarre un reperto di discrete dimensioni.
«Attenti con quell'argano gravitazionale!» esclamava uno dei frati, mentre accompagnava la pesante pietra verso il trasporto a levitazione.
Intanto due uomini, con abiti sahariani, si avvicinavano entusiasti allo scavo, accompagnati da un frate superiore che stava dirigendo le operazioni nella zona.
«Con quest'ultimo ritrovamento dovremmo aver concluso!» asserì il frate, rivolgendosi a loro.
«Molto bene! Non ci resta che ripulire e tentare di assemblare tutti i frammenti, e iniziare a decifrare gli scritti!» rispose uno dei due archeologi, fregandosi le mani soddisfatto.
L'altro osservava smanioso le operazioni di scavo, assaporando i clamori e soprattutto la ricompensa che il Concilio si era impegnato ad elargire loro.
Tutto era cominciato quasi un anno prima, con la loro convocazione dinnanzi al Santo Padre in persona, per svolgere una serie di ricerche sulle origini delle Sacre Scritture, in particolare sulla fuga del popolo ebraico dall'Egitto.
Arthur Sloan e Henry Kenner erano stati scelti per i loro precedenti studi e trattati sulle civiltà egizie, e soprattutto perché sulla Terra erano rimaste in vita ben poche persone con le loro stesse conoscenze.
Inizialmente quell'invito non li entusiasmò, anzi. Lavorare per il Concilio delle Fedi, senza avere un diretto controllo sull'operazione, aveva creato non pochi attriti all'inizio della spedizione, ma alla fine la curiosità di poter ritornare direttamente sul campo dei loro studi, dopo anni di guerre e problemi ben più impellenti da dover risolvere, li aveva convinti a proseguire. A questo bisognava aggiungere l'ingente compenso che il Papa in prima persona si era ripromesso di elargire loro, come segno di gratitudine per il compimento di una missione tanto importante per l'umanità.
In seguito, i primi ritrovamenti avevano acceso l'entusiasmo dei due studiosi, portando in secondo piano le difficoltà iniziali. Ma ora tutto era alle spalle e non restava che raccogliere i frutti di tutte le loro fatiche.
«L'ultimo reperto è stato caricato.» disse, vistosamente affannato, uno dei frati benedettini.
«Muoviamoci allora, prima che faccia buio! Se ci sbrighiamo arriveremo al campo base in un'ora!» rispose Arthur, coprendosi il volto con un lembo di stoffa della sciarpa che aveva al collo.
«Andate! E che nostro Signore guidi la vostra mano!» esclamò il frate superiore, con un cenno di saluto.
«Certo, certo!» replicò Henry, trattenendo a fatica una smorfia di scherno.
I due salirono sul trasporto e decollarono, seguendo una pista in gran parte coperta dalla sabbia in direzione del sole che stava ormai incominciando a tramontare.
«Ma ci pensi! Ce l'abbiamo fatta! Ora ci basterà comporre tutti i frammenti della stele e finalmente riusciremo a scoprire la verità sull'Esodo!» esclamò festante Arthur.
«E soprattutto ci toglieremo da questo schifo di posto e ci godremo la nostra ricompensa!» replicò sarcastico Henry, e aggiunse: «É più di un anno che sgobbiamo come muli! Mai un po' di riposo, mai un giorno di festa!».
«Hai ragione, ma oltre alla ricompensa ci saranno gli onori di una scoperta di questo calibro! E la nostra carriera sarà spianata! Tutte le università e i simposi ci convocheranno a gran voce! Per non parlare poi di tutte le pubblicazioni che potremo rivendere sull'argomento!» rispose Arthur, cercando di allargare i suoi orizzonti.
Henry, con la faccia bruciata dal sole, in una strana smorfia soddisfatta fece guizzare i suoi denti bianchissimi, in contrasto con la carnagione scurita dal tempo passato nel deserto, e senza rispondere aumentò i giri del propulsore, per giungere al più presto a destinazione.
Arrivati al campo base, alcuni frati benedettini e diversi lavoranti del luogo li accolsero eccitati, mentre ormai le luci dei vari proiettori sparsi per la tendopoli cominciavano ad accendersi.
Arthur scese con un balzo dal trasporto, scuotendosi dalla chioma folta e nera come la pece la sabbia che vi si era infilata durante il viaggio.
Chiamò alcuni uomini, dandogli indicazioni su come scaricare i reperti, per poi dirigersi alle docce del campo, in cerca di ristoro.
Henry invece sfilò dal suo taschino un contenitore di metallo, nel quale conservava alcuni Toscani. Ne accese uno, cominciando a gustarne alcune boccate, già con la mente rivolta agli splendidi Avana che avrebbe potuto assaporare una volta finita la spedizione. Il caldo secco già rendeva orribili quelli italiani, sarebbe stato un peccato rovinare un prodotto così raro e pregiato.
Dopo un po' di refrigerio con una doccia ed un pasto caldo, i due archeologi si avvicinarono subito alla tenda contenente tutti i reperti, per decidere il da farsi.
«Vogliamo cominciare subito?» chiese Arthur, ansioso.
«Sei il solito bambino alle prese con il giocattolo nuovo! Ma questa volta hai ragione: prima si comincia, prima si finisce!» gli rispose il compagno, incamminandosi verso l'ingresso della tenda.
Al suo interno, su un enorme tavolo in legno ricavato da diverse pesanti assi, poggiavano una ventina di pietre nerastre, riccamente incise con geroglifici piccoli ma ben distinti, ognuna con dei marcatori e dei codici identificativi, per determinarne il punto di ritrovamento e la sua presunta posizione.
Un pesante puzzle, che i due archeologi avrebbero dovuto terminare per comprendere fino in fondo cosa era stato trascritto.
Alcune frasi erano state già interpretate e trattavano di alcune importanti campagne militari del re Merentptah, che avrebbero dovuto riguardare gli Ebrei e il loro esodo dall'Egitto.
Arthur cominciò ad attivare uno dei computer presenti nella tenda, unitamente ad alcuni bracci meccanici necessari per poter spostare e riposizionare i frammenti nella loro giusta dislocazione.
Henry intanto scrutava pensieroso alcuni frammenti, in particolare l'ultimo, che era stato temporaneamente posizionato al centro della stele, dove si presumeva mancasse il testo chiave.
«Guarda un po' qui...» disse, attirando l'attenzione del compagno.
Arthur si avvicinò, incuriosito dallo sguardo meditabondo del collega, che ormai conosceva come le sue tasche. Certo, per lui prima della scienza venivano i soldi, ma la sua competenza nella materia poteva essere seconda soltanto alla sua.
...Ogni razziatore è stato assoggettato dal re Merentptah, che dà la vita come ogni giorno fa il dio Sole...
Leggeva a voce alta l'archeologo, cercando di interpretare i vari simboli egizi.
Poi provò a ripulire dalla sabbia e dalle scorie alcuni simboli successivi.
...Il popolo di Ysiraal è rovinato – di esso non rimane seme...
«Ysiraal? Ma non avevamo assunto che questa dicitura indicava il popolo d'Israele?» chiese Arthur, dubbioso.
«Già! Quindi questo vuol dire una cosa sola...» replicò Henry, incredulo.
«Che il popolo d'Israele non è mai entrato in Egitto, e di conseguenza non ha mai cominciato l'Esodo...» proseguì nel ragionamento Arthur, ancora più sbigottito.
La notte proseguì nell'affanno e nella ricerca spasmodica di altre informazioni, di altre scritte, date, indicazioni che in qualche modo potessero confutare la loro scoperta.
Ma non trovarono niente.
Nulla faceva credere il contrario. Secoli di scritti, credenze e convinzioni religiose venivano spazzate via da quelle poche pietre che avevano resistito incolumi al tempo, rivelando una verità a dir poco sconvolgente.
Tutto quello che il Vecchio Testamento riportava era falso. Tutto quello che ben tre religioni professavano e promulgavano nei loro riti, di fatto veniva messo in discussione, confutato da una prova tanto tangibile quanto incredibile.
«E ora che facciamo?» chiese Arthur, stremato per la fatica della nottata ma altrettanto sgomento.
Henry si stava mordicchiando l'unghia del pollice ormai da una mezz'ora, camminando freneticamente su e giù per la tenda come una fiera in gabbia.
Stava cercando di ponderare ogni possibile soluzione, ogni più piccolo spiraglio, ma i suoi ragionamenti giungevano sempre allo stesso risultato: una rivelazione del genere li avrebbe portati a morte certa.
O per mano del Concilio, o per mano di qualche fanatico che avrebbe concepito le loro scoperte come una blasfemia, da punire con il sangue.
Ma come fare ad uscirne indenni, e, soprattutto, come poterne ricavare qualcosa, dopo oltre un anno senza alcuna entrata decorosa?
Ormai il pollice martoriato non era più sufficiente a placare la tensione dell'uomo, che era passato a mortificare l'indice con eguale impegno.
Poi, d'un tratto, Henry si fermò, come congelato, rivolgendo il suo sguardo ad una delle apparecchiature presenti nel laboratorio.
Campeggiava su di esso la scritta, in parte scolorita dall'usura e dalla sabbia, dell'azienda che la produceva: la Galaxiacorp Dugnac Enterprise.
«Ecco chi ci potrà salvare...» disse al compagno, indicando l'apparecchiatura.
«E cosa c'entra lo scanner per la datazione?» chiese incredulo Arthur, avvicinandosi.
«Non lo scanner, ma chi lo produce!» rispose Henry, con il volto trasfigurato dall'intuizione.
«Ma sei impazzito? Vuoi che ci ammazzino?» replicò frettolosamente il compagno, guardandosi intorno per paura di essere osservato.
«Succederà comunque se riveliamo la nostra scoperta! Loro invece hanno tutto l'interesse a divulgarla e a proteggerci! Noi gli diamo uno strumento formidabile per sconfiggere dalle fondamenta i loro nemici! Ma non capisci?» rispose Henry, in preda all'entusiasmo della trovata.
Arthur non sembrava affatto convinto dall'idea, e si sedette sconsolato su uno degli sgabelli impolverati vicino ai reperti, guardandoli afflitto da un indicibile sconforto.
Altro che gloria e riconoscimenti. Si sarebbero dovuti nascondere agli occhi del mondo perché la loro verità scomoda li metteva sotto una pessima luce.
«Ma come faremo a uscirne ora? Non possiamo dire a questi che dobbiamo assentarci per rivelare ai loro più acerrimi nemici che i loro dogmi fanno acqua da tutte le parti!» abbozzò Arthur, con le mani tra i capelli sempre più spettinati.
«Non lo so! Non lo so, ma qualcosa ci verrà in mente!» ribatteva Henry, affacciandosi dalla tenda.
Ormai l'alba stava lentamente illuminando le colline aride, amplificandone il colore biancastro fino a rischiarare rapidamente tutta la tendopoli, che lentamente cominciava a brulicare di vita.
I due scienziati, dopo una breve occhiata d'intesa, uscirono dalla tenda per recarsi verso i bagni comuni del campo e darsi una rinfrescata. La notte era stata a dir poco agitata ed erano entrambi esausti.
«Ci sono progressi?» chiese una voce squillante alle loro spalle.
I due uomini si girarono di scatto, presi di sorpresa dal capo spedizione, Padre Ignazio, un italiano piccolo e vispo, che era sempre alle loro costole.
«Sì e no!» rispose Henry, asciugandosi la faccia appena lavata.
Il frate, senza rispondere, incrociò le braccia, in attesa di qualche chiarimento, sempre poco tollerante verso i modi bruschi dell'americano.
«Sì, perché tutti i reperti sono stati correttamente posizionati e no, perché abbiamo bisogno di strumenti più efficaci per la datazione!» proseguì nella spiegazione, mentre trafficava con uno spazzolino sonico.
«Il mio collega voleva spiegare che per avere una verifica certa del contenuto, dobbiamo risalire al periodo storico esatto in cui è stata scritta la stele. Alcuni simboli possono differire nel significato in base alla loro datazione.» intervenne Arthur, con l'intento di non fornire scuse ai due uomini per litigare, sapendo quanto poco si soffrissero.
«E con questo cosa volete dire? Avete bisogno di nuovi strumenti? É già stata un'impresa attrezzare questo campo base con tutte queste diavolerie, e ora ne volete delle altre?» replicò sbuffando Padre Ignazio, stufo delle continue richieste dei due scienziati.
«Porteremo i reperti nel nostro laboratorio!» rispose compassato Henry, che stava cominciando ad architettare il suo piano.
«É fuori discussione! Questi reperti sono così importanti che...» provò a reagire il Frate Superiore, andando in escandescenze.
«Ma proprio perché sono così importanti dobbiamo portarli al più presto in un luogo protetto e in grado, con le migliori attrezzature, di rivelare finalmente al mondo intero questa verità di fede!» lo interruppe Arthur, provando a cavalcare l'idea del compagno.
Padre Ignazio restò a guardare i due individui per alcuni interminabili secondi, come per scovare in loro qualche oscuro motivo dietro quella proposta, ma non trovò nulla di sospetto e borbottando rispose: «E sia. Preparate il trasporto! Ma organizzate una scorta armata e soprattutto non rivelate il percorso e la destinazione a nessuno!».
I due scienziati rimasero impassibili alle disposizioni del Padre Superiore, ma appena questi ebbe lasciato il bagno comune, iniziarono ad abbracciarsi festanti. Erano riusciti, almeno per ora, a prendere tempo.
Dopo una doccia, galvanizzati dal primo ostacolo superato, Arthur iniziò subito ad occuparsi del carico e dei preparativi sul trasporto, mentre Henry cercava di escogitare qualcosa per agevolarsi la fuga.
Mentre tutti gli operai e i frati benedettini del campo erano intenti alle operazioni di carico, e le guardie si stavano preparando a far decollare i caccia di scorta, Henry girovagava senza meta in mezzo alla confusione in cerca di qualche idea.
Poi, come folgorato, vide una serie di cavi che correvano sotto la sabbia ed in parte erano stati scoperti dal calpestio del via vai generale. I cavi si diramavano in vari punti del campo base, fino a raggiungere un grosso generatore a fusione.
Con una rapida occhiata Henry si guardò intorno e si diresse spedito verso il generatore, alla ricerca dei comandi. Li trovò quasi subito e cominciò a trafficarci sopra, con l'intento di disattivarlo o sovraccaricarlo. Sarebbe stato un ottimo diversivo per la fuga.
Ora non restava che sabotare i caccia dei Templari che li avrebbero dovuti scortare.
I due vascelli presenti erano ben sorvegliati e diversi uomini li stavano predisponendo per il decollo, quindi non sarebbe stato facile sabotarli. Ma Henry non si perse d'animo e provò a guardarsi intorno in cerca di un'idea. Seguendo il percorso dei cavi che si diramavano dal generatore a fusione, vide che alcuni di loro passavano proprio sotto i due caccia. Con un po' di fortuna, il sabotaggio del generatore avrebbe coinvolto anche i due vascelli, ma doveva averne la certezza.
Si diresse nuovamente verso la centrale energetica, disattivando e staccando due dei cavi che passavano proprio sotto i due caccia.
Poi, cercando di non farsi notare, ritornò nell'area di parcheggio delle astronavi, ed infilandosi sotto uno dei due vascelli, si avvicinò ad uno dei due cavi, lo tranciò e lo collegò direttamente allo scafo della nave, incastrandolo in uno dei boccaporti di ispezione.
Strisciando, si intrufolò anche sotto l'altro caccia, ripetendo l'operazione appena escogitata.
Poi, rifacendo il percorso a ritroso, ritornò al generatore, ricollegando i cavi precedentemente scollegati.
Ora era tutto pronto, ma bisognava cogliere il momento adatto per la fuga. Il generatore si stava surriscaldando e un'ondata di energia si sarebbe liberata per tutti gli impianti.
Arthur, intanto, aveva quasi terminato i preparativi per il decollo, e con lo sguardo stava cercando Henry che era sparito.
«Dove eri finito? Qui è quasi tutto pronto!» gli disse, vedendolo arrivare tutto trafelato.
«Sali a bordo e decolla alla svelta!» gli rispose Henry sotto voce.
Arthur non ebbe modo di capire, ma venne preso per un braccio e trascinato dentro il trasporto.
I due raggiunsero rapidamente la cabina di pilotaggio e iniziarono il decollo, alzando una notevole nube di polvere, grazie alla spinta gravitazionale dei motori di manovra.
«Ma che cosa stanno facendo?» chiese adirato Padre Ignazio, accecato dalla nuvola di polvere.
Proprio in quell'istante il generatore avviò la procedura di sicurezza, rilasciando una quantità enorme di energia per tutto l'impianto, coinvolgendo tutti gli apparati che si bruciarono all'istante.
Anche gli impianti dei due caccia cominciarono a cortocircuitarsi, tra mille fiammate.
Nella confusione generale, il trasporto proseguì nel decollo fino a librarsi ed a lasciare l'area, tra il fuoco dei Templari a terra, ormai appiedati. Ma era tutto inutile: i mitra in dotazione non erano in grado di fermare un mezzo così grosso.
«Fermateli! Fermateli!» urlava a perdifiato Padre Ignazio, in preda alla collera.
Dopo aver superato rapidamente le difese orbitali sulla Terra, Arthur ed Henry avevano deciso di mettere il maggior numero di anni luce possibili tra loro e il Concilio delle Fedi.
Li avrebbe attesi sicuramente la morte, per la loro fuga, ma ormai si erano convinti entrambi che il loro destino era comunque segnato. Le informazioni che avevano scoperto sarebbero state sicuramente nascoste e sepolte con loro, per conservare per chissà quanti altri secoli quell'inconfessabile ritrovamento.
L'unica soluzione era dirigersi in qualche zona di confine, dove magari era possibile incontrare qualche elemento ancora fedele alle Galaxiacorp, e tentare di barattare quelle informazioni con la libertà, e magari un bel gruzzolo.
Decisero quindi di dirigersi verso il confine con il Braccio del Sagittario, nel sistema Angus, dove Henry conosceva qualcuno in grado di aiutarli.
«Ma ci potremo fidare?» chiese Arthur, preoccupato, mentre osservava avvicinarsi all'orizzonte la loro destinazione finale.
«Ora come ora non ci possiamo fidare di nessuno! Ma Casey l'ho conosciuta anni fa, in un campo scavi, e non è mai stata una simpatizzante delle religioni. Ha lavorato per anni per la Dugnac Enterprise!» rispose secco il compagno.
«E com'è?» chiese Arthur, alludendo a un qualche trascorso tra i due.
«É una donna! E con questo? Pensa ad atterrare tu, e non ti distrarre! É in gioco la nostra vita!» replicò Henry, scocciato dalla domanda.
Angus III era un pianeta come tanti, brullo, inquinato e caotico, insomma un posto perfetto per passare inosservati.
Sbrigate le procedure di atterraggio, il trasporto planò in un'area antistante all'agglomerato urbano, abbarbicato su una collina in modo disordinato, con luci, colori e profumi confusi e contrastanti, in un crogiolo di razze, stili architettonici e variopinte insegne.
I due uomini scesero subito dal vascello con la voglia di immergersi in quella bolgia, dopo diversi giorni di viaggio faticoso ed oltre un anno di isolamento dalla civiltà e dai divertimenti che offriva.
In ogni angolo delle tortuose strade che si districavano all'interno dell'agglomerato, locali di ogni tipo offrivano roboanti offerte, sconti e promozioni, cercando di attirare la fiumana di folla indifferente.
Dopo una breve occhiata per orientarsi, Henry e Arthur seguirono le indicazioni che la loro conoscente gli aveva inviato, riportate sul loro piccolo computer tascabile, invitandoli a raggiungerla in un locale non lontano.
Le insegne intermittenti del locale non erano molto distinguibili, ma permisero comunque ai due archeologi di raggiungere, tra la folla, il luogo dell'appuntamento.
Fuori dal locale, Casey stava aspettando appoggiata ad una delle colonne portanti del locale, come se stesse sostenendo da sola parte dello stabile.
Il suo sguardo era perso nella calca della folla, con fare annoiato e stanco, mentre si stringeva nell'impermeabile nero che le fasciava il corpo minuto.
Henry e Arthur la videro e si avvicinarono a lei senza dare troppo nell'occhio, seguendo alla lettera le indicazioni della donna.
Casey, senza dare nell'occhio, infilò un bigliettino nella tasca della giacca di Henry e si dileguò senza rivolger loro la parola.
Arthur non capiva il motivo di tutte quelle manfrine, ma Henry lo trattenne per un braccio, intimandogli di stare al gioco.
I due si allontanarono di alcuni metri dal locale, presero il biglietto e ritornarono sui loro passi.
«Ora ho capito perché non me ne avevi mai parlato...» disse Arthur, alludendo al fascino dell'australiana.
«Piantala! E vedi di non fare altre stronzate...» rispose seccato Henry, proseguendo tra la calca.
I due tornarono al loro vascello e attesero una buona mezz'ora in bella vista sul piazzale dello spazioporto.
Con tutta calma Casey arrivò, e senza salutarli proseguì verso il vano di carico dell'astronave.
Henry e Arthur la seguirono a breve distanza, mentre rimiravano il panorama ondeggiante che offriva il lungo e attillato soprabito nero.
Arrivati dietro l'astronave, Arthur aprì il vano di carico, e senza dire nulla Casey cominciò ad esaminare alcuni dei reperti.
«Vuoi vedere le analisi e la datazione? É tutto autentico!» cercò di interagire Arthur.
Ma Casey lo fulminò con il suo sguardo azzurro ghiaccio, e senza dire una parola pose un altro biglietto nelle mani di Henry, quindi se ne andò come se n'era venuta.
«Ma sa parlare almeno?» chiese Arthur, stranito da quel comportamento.
«Non lo so e non mi interessa! Chiudiamo questa storia e leviamoci da qui alla svelta! Il Concilio ci starà cercando in tutta la Galassia e non abbiamo tempo da perdere in smancerie.» replicò Henry, mentre cercava di capire le indicazioni sul biglietto.
Chiuso l'hangar, i due ripresero a vagare per le viuzze intasate della città, fino a raggiungere un'area residenziale più tranquilla e piuttosto curata.
Dopo diversi tentativi, Henry ed Arthur si ritrovarono finalmente davanti alla villetta indicata, in mezzo a molte abitazioni del tutto uguali, disseminate in modo ortogonale, come tante pedine su una scacchiera, dove nulla differiva, tranne per alcune indicazioni sui proprietari.
Suonarono al campanello, e le porte del cancello perimetrale si aprirono silenziose, come pure la porta dell'ingresso, invitandoli implicitamente ad entrare nella proprietà.
Una volta dentro, il cancello e la porta d'ingresso si chiusero dietro di loro, con un comando automatico, mentre Casey, di fronte a loro, li fissava con aria innervosita.
«Ce ne avete messo di tempo!» esclamò, tamburellando con le dita sul fianco, vistosamente indispettita.
«Questo posto è un labirinto! E poi che fretta c'è?» rispose Henry, sgarbato come al solito.
La donna senza replicare li introdusse nella sua dimora, piuttosto spoglia e con molti mobili ricavati direttamente nelle pareti. Nulla di personale appeso alle pareti o sui pensili, tutto sembrava come provvisorio, senza personalità.
«Prego, sedetevi.» disse Casey, mentre si accomodava su un divano, accavallando le lunghe gambe, avendo cura di coprirle con la corta gonna del tailleur.
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«Allora, veniamo al sodo! Ti interessa?» chiese Henry, senza perdere altro tempo.
«Ma perché non ci hai detto nulla per tutto il tempo...» intervenne Arthur, incuriosito.
«Qui l'area è schermata da rilevatori acustici, e sì, mi interessa! O meglio, interessa ai miei titolari...» rispose ad entrambi Casey, mentre alzandosi si dirigeva verso un mobile bar.
«Credi che qualcuno ci stia seguendo?» chiese Arthur, impaurito dalla risposta ricevuta.
«Semplici precauzioni, visto che da quello che mi dite si tratta di roba grossa... Scotch?» rispose la donna, mentre si apprestava a preparare alcuni drink.
Henry annuì all'offerta di una bevuta, mentre rimirava le curve sinuose della vecchia collega che gli dava le spalle, concentrandosi su pensieri ben più lascivi di quelli che il suo abbigliamento austero poteva suggerire.
«Certo, certo! Capisco!» replicò Arthur, dando un'occhiata al suo compagno e cercando di trattenersi dall'entrare nei dettagli della loro scoperta.
«Certo che è una roba grossa! Molto grossa! Potrebbe cambiare persino le sorti dell'attuale conflitto!» rincarò la dose Henry, con fare spavaldo.
Casey porse loro i drink tintinnanti e a sua volta posò il vassoio per servirsi, e innalzando il bicchiere esclamò: «Allora, al nostro futuro affare!».
Tutti bevvero, sorseggiando l'ottimo scotch, e posarono il bicchiere soddisfatti del brindisi, ma subito dopo Henry e Arthur cominciarono a sentirsi strani, cominciando ad arrancare, fino a cadere a terra svenuti, sotto lo sguardo compiaciuto di Casey.
Nello spazioporto, un'astronave piuttosto piccola e malconcia si stava affiancando alla banchisa dove il trasporto rubato era stato attraccato. Su questo piccolo cargo fervevano i preparativi per l'atterraggio, e un uomo calvo stava terminando di radersi il capo, ormai quasi completamente rasato.
«La nave è quella?» domandò Padre Ignazio al pilota, mentre terminava di ripulirsi dalla rasatura.
«Sì Padre! Il transponder funziona perfettamente! Non ci sono dubbi!» rispose il pilota del vascello, mentre terminava le operazioni di atterraggio.
Padre Ignazio gli diede una pacca sulla spalla e si diresse nella stiva della nave, dove almeno un centinaio di uomini si stavano travestendo, nascondendo le loro armi e le corazze in tela di ragno, coperte dalle insegne templari.
Avevano ormai seguito per giorni e senza sosta la fuga dei due traditori, grazie agli apparati presenti sul trasporto.
Padre Ignazio era furioso, e solo l'importanza della scoperta, unita alle raccomandazioni del Santo Padre, lo avevano portato a cercare di recuperare piuttosto che distruggere il trasporto con il comando a distanza in suo possesso.
Bisognava fare almeno un tentativo, anche se questo avrebbe comportato i rischi di una missione in terra ostile.
Ormai però l'onta e la rabbia muovevano i passi e le azioni del piccolo Padre Benedettino, con la forza che solo la fede può conferire.
«Fratelli, un attimo di attenzione! Ricordatevi che questa missione è in territorio nemico ed è della massima importanza che si riescano a ritrovare intatti i reperti trafugati! Non uscirete da qui, se non dietro mio diretto ordine e solo per recuperare la refurtiva. Tutto chiaro?» tuonò il Padre Superiore, guardando gli uomini con fierezza.
I Templari annuirono in silenzio, mentre terminavano di armare i mitra laser e le armi da fuoco in loro dotazione, oltre a un gruppo di robot di Serie F di supporto, armati con lanciamissili e cannoni anticarro.
«Siamo pronti allo sbarco!» si udì dalla cabina di pilotaggio.
«Voi due con me! Il resto in attesa di ordini!» esclamò Padre Ignazio, avviandosi verso il boccaporto di uscita.
Aperto il portellone di sbarco, il Padre Benedettino e i due Templari uscirono con calma dal vascello, si guardarono intorno, e senza perdere tempo si diressero spediti verso il trasporto.
La calca tutt'intorno non si curava certo di loro, tre mercanti come tanti altri in uno spazioporto affollato di gente e di mercanzie d'ogni tipo.
Arrivato piuttosto in fretta al boccaporto di poppa, Padre Ignazio estrasse un comando a distanza e provò ad azionarlo. Ma nulla, il comando sembrava disattivato.
Con un cenno ordinò ai due Templari di utilizzare le maniere forti, e senza perdere tempo essi cominciarono a montare una lancia laser in grado di tagliare lo scafo della nave, mentre Padre Ignazio si appostava poco lontano, tenendo d'occhio l'arrivo di qualcuno che potesse disturbarli.
Dopo diversi minuti di lavoro incessante, venne aperto nello scafo un varco sufficiente ad un uomo per entrare comodamente, ma ci volle qualche istante prima che i tre religiosi potessero resistere all'intenso calore sprigionato dal metallo ancora incandescente.
Appena il gruppo riuscì a penetrare nell'astronave, Padre Ignazio accese una torcia per l'illuminare l'interno della stiva, ma con suo grande stupore esclamò: «Niente! Niente! Hanno già portato via tutto! E ora come faremo? Cosa dirò al Santo Padre?».
I due Templari estrassero degli scanner portatili per refertare l'area, ma oltre alle impronte dei due fuggitivi non si trovavano al momento altri indizi rilevanti.
«Qui l'area è pulita! Cosa facciamo, Padre?» chiese uno dei due soldati.
«Lasciamo l'area! Azioneremo il detonatore non appena a distanza di sicurezza!» mormorò Padre Ignazio, vistosamente in collera.
«Ma Padre...» provò a intervenire il secondo soldato, ma il Frate Benedettino lo fulminò con uno sguardo pieno di odio e d'ira, e senza dare altre spiegazioni si diresse verso il varco da cui erano entrati.
Henry cominciò a guardarsi intorno, tentando di rialzarsi nel buio, ma si rese subito conto di essere legato mani e piedi ad una lastra di pietra.
Provò a liberarsi, ma si accorse che erano catene molto spesse quelle che lo assicuravano al suo nuovo giaciglio.
Intontito e spaesato, provò ad osservare meglio, cercando di stringere gli occhi, cosa lo circondava, e si rese conto che il suo amico Arthur si trovava nelle sue stesse condizioni di fianco a lui.
Inoltre si rese conto di un ulteriore dettaglio, non di poco conto. Era completamente nudo, solo un lenzuolo striminzito ricopriva le sue intimità.
«Arthur! Arthur! Svegliati, maledizione! Arthur!» bisbigliò Henry, alzando sempre di più il tono della sua voce.
Il compagno sembrava non reagire ai suoi richiami, poi, d'un colpo, tentò di alzarsi di scatto, ma venne trattenuto dalle pesanti catene.
«Henry, dove sei? Ma che sta succedendo?» gli rispose, ripresosi velocemente dal torpore.
«Non lo so! Mi ricordo solo che eravamo a casa di Casey e...» ripensava ad alta voce l'uomo, cercando di divincolarsi senza successo.
Ma proprio in quel momento, in modo del tutto inatteso, alcune torce appese alle pareti si accesero, quasi come possedute dalla fiamma che improvvisamente aveva cominciato ad ardere.
La luce che emanavano mostrava ai due compagni una sala ottagonale, scavata nella roccia nera, disadorna e piena di ragnatele e insetti nerastri che camminavano sul pavimento, brulicando come impazziti.
Alle base delle pareti, inoltre, si scorgevano i reperti collocati contro di esse e quasi completamente coperti dagli insetti.
«Ma cosa sono, Henry? Cosa sono?» chiedeva sempre più spaventato Arthur.
Il compagno provò a mettere a fuoco meglio, cercando di distinguere sul pavimento gli insetti presi nella frenesia di trovare nuovamente il buio, e rispose: «Sembrano scarabei... Ma in che posto ci hanno portato?».
Proprio in quel momento una figura femminile fece il suo ingresso da un lato della sala, adornata con gioielli in stile egizio, dai colori e dalla foggia ricchissimi, che ricoprivano la testa e parte del petto nudo, mentre una veste bianca, fermata con un gioiello alla vita, le ricopriva i fianchi e le gambe.
A piedi nudi camminava lentamente, noncurante di calpestare gli insetti con il suo procedere, recitando una nenia incomprensibile.
Avanzava con gli occhi sbarrati e rivolti all'insù, ma come se fosse in grado di vedere tranquillamente davanti a sé, fino a fermarsi al centro della sala e a rivolgersi ai due prigionieri.
Era Casey.
La donna continuava nella sua cantilena, avvicinandosi alla pietra su cui era legato Henry, che non capendo urlò: «Ehi! Ma che scherzi sono questi? Sono Henry! Mi riconosci?».
Ma Casey continuava nella sua litania, mentre sollevava lentamente con il braccio sinistro un enorme pugnale d'oro ricurvo, ricoperto di pietre preziose.
Poi si interruppe, affondando il coltello nel petto di Henry, e gridando: «Seth! Vieni a me!», mentre le urla di morte dell'uomo si mescolavano a quelle di terrore di Arthur, e i bagliori di un'esplosione nucleare illuminavano a giorno tutta la sala.
«Attenti con quell'argano gravitazionale!» esclamava uno dei frati, mentre accompagnava la pesante pietra verso il trasporto a levitazione.
Intanto due uomini, con abiti sahariani, si avvicinavano entusiasti allo scavo, accompagnati da un frate superiore che stava dirigendo le operazioni nella zona.
«Con quest'ultimo ritrovamento dovremmo aver concluso!» asserì il frate, rivolgendosi a loro.
«Molto bene! Non ci resta che ripulire e tentare di assemblare tutti i frammenti, e iniziare a decifrare gli scritti!» rispose uno dei due archeologi, fregandosi le mani soddisfatto.
L'altro osservava smanioso le operazioni di scavo, assaporando i clamori e soprattutto la ricompensa che il Concilio si era impegnato ad elargire loro.
Tutto era cominciato quasi un anno prima, con la loro convocazione dinnanzi al Santo Padre in persona, per svolgere una serie di ricerche sulle origini delle Sacre Scritture, in particolare sulla fuga del popolo ebraico dall'Egitto.
Arthur Sloan e Henry Kenner erano stati scelti per i loro precedenti studi e trattati sulle civiltà egizie, e soprattutto perché sulla Terra erano rimaste in vita ben poche persone con le loro stesse conoscenze.
Inizialmente quell'invito non li entusiasmò, anzi. Lavorare per il Concilio delle Fedi, senza avere un diretto controllo sull'operazione, aveva creato non pochi attriti all'inizio della spedizione, ma alla fine la curiosità di poter ritornare direttamente sul campo dei loro studi, dopo anni di guerre e problemi ben più impellenti da dover risolvere, li aveva convinti a proseguire. A questo bisognava aggiungere l'ingente compenso che il Papa in prima persona si era ripromesso di elargire loro, come segno di gratitudine per il compimento di una missione tanto importante per l'umanità.
In seguito, i primi ritrovamenti avevano acceso l'entusiasmo dei due studiosi, portando in secondo piano le difficoltà iniziali. Ma ora tutto era alle spalle e non restava che raccogliere i frutti di tutte le loro fatiche.
«L'ultimo reperto è stato caricato.» disse, vistosamente affannato, uno dei frati benedettini.
«Muoviamoci allora, prima che faccia buio! Se ci sbrighiamo arriveremo al campo base in un'ora!» rispose Arthur, coprendosi il volto con un lembo di stoffa della sciarpa che aveva al collo.
«Andate! E che nostro Signore guidi la vostra mano!» esclamò il frate superiore, con un cenno di saluto.
«Certo, certo!» replicò Henry, trattenendo a fatica una smorfia di scherno.
I due salirono sul trasporto e decollarono, seguendo una pista in gran parte coperta dalla sabbia in direzione del sole che stava ormai incominciando a tramontare.
«Ma ci pensi! Ce l'abbiamo fatta! Ora ci basterà comporre tutti i frammenti della stele e finalmente riusciremo a scoprire la verità sull'Esodo!» esclamò festante Arthur.
«E soprattutto ci toglieremo da questo schifo di posto e ci godremo la nostra ricompensa!» replicò sarcastico Henry, e aggiunse: «É più di un anno che sgobbiamo come muli! Mai un po' di riposo, mai un giorno di festa!».
«Hai ragione, ma oltre alla ricompensa ci saranno gli onori di una scoperta di questo calibro! E la nostra carriera sarà spianata! Tutte le università e i simposi ci convocheranno a gran voce! Per non parlare poi di tutte le pubblicazioni che potremo rivendere sull'argomento!» rispose Arthur, cercando di allargare i suoi orizzonti.
Henry, con la faccia bruciata dal sole, in una strana smorfia soddisfatta fece guizzare i suoi denti bianchissimi, in contrasto con la carnagione scurita dal tempo passato nel deserto, e senza rispondere aumentò i giri del propulsore, per giungere al più presto a destinazione.
Arrivati al campo base, alcuni frati benedettini e diversi lavoranti del luogo li accolsero eccitati, mentre ormai le luci dei vari proiettori sparsi per la tendopoli cominciavano ad accendersi.
Arthur scese con un balzo dal trasporto, scuotendosi dalla chioma folta e nera come la pece la sabbia che vi si era infilata durante il viaggio.
Chiamò alcuni uomini, dandogli indicazioni su come scaricare i reperti, per poi dirigersi alle docce del campo, in cerca di ristoro.
Henry invece sfilò dal suo taschino un contenitore di metallo, nel quale conservava alcuni Toscani. Ne accese uno, cominciando a gustarne alcune boccate, già con la mente rivolta agli splendidi Avana che avrebbe potuto assaporare una volta finita la spedizione. Il caldo secco già rendeva orribili quelli italiani, sarebbe stato un peccato rovinare un prodotto così raro e pregiato.
Dopo un po' di refrigerio con una doccia ed un pasto caldo, i due archeologi si avvicinarono subito alla tenda contenente tutti i reperti, per decidere il da farsi.
«Vogliamo cominciare subito?» chiese Arthur, ansioso.
«Sei il solito bambino alle prese con il giocattolo nuovo! Ma questa volta hai ragione: prima si comincia, prima si finisce!» gli rispose il compagno, incamminandosi verso l'ingresso della tenda.
Al suo interno, su un enorme tavolo in legno ricavato da diverse pesanti assi, poggiavano una ventina di pietre nerastre, riccamente incise con geroglifici piccoli ma ben distinti, ognuna con dei marcatori e dei codici identificativi, per determinarne il punto di ritrovamento e la sua presunta posizione.
Un pesante puzzle, che i due archeologi avrebbero dovuto terminare per comprendere fino in fondo cosa era stato trascritto.
Alcune frasi erano state già interpretate e trattavano di alcune importanti campagne militari del re Merentptah, che avrebbero dovuto riguardare gli Ebrei e il loro esodo dall'Egitto.
Arthur cominciò ad attivare uno dei computer presenti nella tenda, unitamente ad alcuni bracci meccanici necessari per poter spostare e riposizionare i frammenti nella loro giusta dislocazione.
Henry intanto scrutava pensieroso alcuni frammenti, in particolare l'ultimo, che era stato temporaneamente posizionato al centro della stele, dove si presumeva mancasse il testo chiave.
«Guarda un po' qui...» disse, attirando l'attenzione del compagno.
Arthur si avvicinò, incuriosito dallo sguardo meditabondo del collega, che ormai conosceva come le sue tasche. Certo, per lui prima della scienza venivano i soldi, ma la sua competenza nella materia poteva essere seconda soltanto alla sua.
...Ogni razziatore è stato assoggettato dal re Merentptah, che dà la vita come ogni giorno fa il dio Sole...
Leggeva a voce alta l'archeologo, cercando di interpretare i vari simboli egizi.
Poi provò a ripulire dalla sabbia e dalle scorie alcuni simboli successivi.
...Il popolo di Ysiraal è rovinato – di esso non rimane seme...
«Ysiraal? Ma non avevamo assunto che questa dicitura indicava il popolo d'Israele?» chiese Arthur, dubbioso.
«Già! Quindi questo vuol dire una cosa sola...» replicò Henry, incredulo.
«Che il popolo d'Israele non è mai entrato in Egitto, e di conseguenza non ha mai cominciato l'Esodo...» proseguì nel ragionamento Arthur, ancora più sbigottito.
La notte proseguì nell'affanno e nella ricerca spasmodica di altre informazioni, di altre scritte, date, indicazioni che in qualche modo potessero confutare la loro scoperta.
Ma non trovarono niente.
Nulla faceva credere il contrario. Secoli di scritti, credenze e convinzioni religiose venivano spazzate via da quelle poche pietre che avevano resistito incolumi al tempo, rivelando una verità a dir poco sconvolgente.
Tutto quello che il Vecchio Testamento riportava era falso. Tutto quello che ben tre religioni professavano e promulgavano nei loro riti, di fatto veniva messo in discussione, confutato da una prova tanto tangibile quanto incredibile.
«E ora che facciamo?» chiese Arthur, stremato per la fatica della nottata ma altrettanto sgomento.
Henry si stava mordicchiando l'unghia del pollice ormai da una mezz'ora, camminando freneticamente su e giù per la tenda come una fiera in gabbia.
Stava cercando di ponderare ogni possibile soluzione, ogni più piccolo spiraglio, ma i suoi ragionamenti giungevano sempre allo stesso risultato: una rivelazione del genere li avrebbe portati a morte certa.
O per mano del Concilio, o per mano di qualche fanatico che avrebbe concepito le loro scoperte come una blasfemia, da punire con il sangue.
Ma come fare ad uscirne indenni, e, soprattutto, come poterne ricavare qualcosa, dopo oltre un anno senza alcuna entrata decorosa?
Ormai il pollice martoriato non era più sufficiente a placare la tensione dell'uomo, che era passato a mortificare l'indice con eguale impegno.
Poi, d'un tratto, Henry si fermò, come congelato, rivolgendo il suo sguardo ad una delle apparecchiature presenti nel laboratorio.
Campeggiava su di esso la scritta, in parte scolorita dall'usura e dalla sabbia, dell'azienda che la produceva: la Galaxiacorp Dugnac Enterprise.
«Ecco chi ci potrà salvare...» disse al compagno, indicando l'apparecchiatura.
«E cosa c'entra lo scanner per la datazione?» chiese incredulo Arthur, avvicinandosi.
«Non lo scanner, ma chi lo produce!» rispose Henry, con il volto trasfigurato dall'intuizione.
«Ma sei impazzito? Vuoi che ci ammazzino?» replicò frettolosamente il compagno, guardandosi intorno per paura di essere osservato.
«Succederà comunque se riveliamo la nostra scoperta! Loro invece hanno tutto l'interesse a divulgarla e a proteggerci! Noi gli diamo uno strumento formidabile per sconfiggere dalle fondamenta i loro nemici! Ma non capisci?» rispose Henry, in preda all'entusiasmo della trovata.
Arthur non sembrava affatto convinto dall'idea, e si sedette sconsolato su uno degli sgabelli impolverati vicino ai reperti, guardandoli afflitto da un indicibile sconforto.
Altro che gloria e riconoscimenti. Si sarebbero dovuti nascondere agli occhi del mondo perché la loro verità scomoda li metteva sotto una pessima luce.
«Ma come faremo a uscirne ora? Non possiamo dire a questi che dobbiamo assentarci per rivelare ai loro più acerrimi nemici che i loro dogmi fanno acqua da tutte le parti!» abbozzò Arthur, con le mani tra i capelli sempre più spettinati.
«Non lo so! Non lo so, ma qualcosa ci verrà in mente!» ribatteva Henry, affacciandosi dalla tenda.
Ormai l'alba stava lentamente illuminando le colline aride, amplificandone il colore biancastro fino a rischiarare rapidamente tutta la tendopoli, che lentamente cominciava a brulicare di vita.
I due scienziati, dopo una breve occhiata d'intesa, uscirono dalla tenda per recarsi verso i bagni comuni del campo e darsi una rinfrescata. La notte era stata a dir poco agitata ed erano entrambi esausti.
«Ci sono progressi?» chiese una voce squillante alle loro spalle.
I due uomini si girarono di scatto, presi di sorpresa dal capo spedizione, Padre Ignazio, un italiano piccolo e vispo, che era sempre alle loro costole.
«Sì e no!» rispose Henry, asciugandosi la faccia appena lavata.
Il frate, senza rispondere, incrociò le braccia, in attesa di qualche chiarimento, sempre poco tollerante verso i modi bruschi dell'americano.
«Sì, perché tutti i reperti sono stati correttamente posizionati e no, perché abbiamo bisogno di strumenti più efficaci per la datazione!» proseguì nella spiegazione, mentre trafficava con uno spazzolino sonico.
«Il mio collega voleva spiegare che per avere una verifica certa del contenuto, dobbiamo risalire al periodo storico esatto in cui è stata scritta la stele. Alcuni simboli possono differire nel significato in base alla loro datazione.» intervenne Arthur, con l'intento di non fornire scuse ai due uomini per litigare, sapendo quanto poco si soffrissero.
«E con questo cosa volete dire? Avete bisogno di nuovi strumenti? É già stata un'impresa attrezzare questo campo base con tutte queste diavolerie, e ora ne volete delle altre?» replicò sbuffando Padre Ignazio, stufo delle continue richieste dei due scienziati.
«Porteremo i reperti nel nostro laboratorio!» rispose compassato Henry, che stava cominciando ad architettare il suo piano.
«É fuori discussione! Questi reperti sono così importanti che...» provò a reagire il Frate Superiore, andando in escandescenze.
«Ma proprio perché sono così importanti dobbiamo portarli al più presto in un luogo protetto e in grado, con le migliori attrezzature, di rivelare finalmente al mondo intero questa verità di fede!» lo interruppe Arthur, provando a cavalcare l'idea del compagno.
Padre Ignazio restò a guardare i due individui per alcuni interminabili secondi, come per scovare in loro qualche oscuro motivo dietro quella proposta, ma non trovò nulla di sospetto e borbottando rispose: «E sia. Preparate il trasporto! Ma organizzate una scorta armata e soprattutto non rivelate il percorso e la destinazione a nessuno!».
I due scienziati rimasero impassibili alle disposizioni del Padre Superiore, ma appena questi ebbe lasciato il bagno comune, iniziarono ad abbracciarsi festanti. Erano riusciti, almeno per ora, a prendere tempo.
Dopo una doccia, galvanizzati dal primo ostacolo superato, Arthur iniziò subito ad occuparsi del carico e dei preparativi sul trasporto, mentre Henry cercava di escogitare qualcosa per agevolarsi la fuga.
Mentre tutti gli operai e i frati benedettini del campo erano intenti alle operazioni di carico, e le guardie si stavano preparando a far decollare i caccia di scorta, Henry girovagava senza meta in mezzo alla confusione in cerca di qualche idea.
Poi, come folgorato, vide una serie di cavi che correvano sotto la sabbia ed in parte erano stati scoperti dal calpestio del via vai generale. I cavi si diramavano in vari punti del campo base, fino a raggiungere un grosso generatore a fusione.
Con una rapida occhiata Henry si guardò intorno e si diresse spedito verso il generatore, alla ricerca dei comandi. Li trovò quasi subito e cominciò a trafficarci sopra, con l'intento di disattivarlo o sovraccaricarlo. Sarebbe stato un ottimo diversivo per la fuga.
Ora non restava che sabotare i caccia dei Templari che li avrebbero dovuti scortare.
I due vascelli presenti erano ben sorvegliati e diversi uomini li stavano predisponendo per il decollo, quindi non sarebbe stato facile sabotarli. Ma Henry non si perse d'animo e provò a guardarsi intorno in cerca di un'idea. Seguendo il percorso dei cavi che si diramavano dal generatore a fusione, vide che alcuni di loro passavano proprio sotto i due caccia. Con un po' di fortuna, il sabotaggio del generatore avrebbe coinvolto anche i due vascelli, ma doveva averne la certezza.
Si diresse nuovamente verso la centrale energetica, disattivando e staccando due dei cavi che passavano proprio sotto i due caccia.
Poi, cercando di non farsi notare, ritornò nell'area di parcheggio delle astronavi, ed infilandosi sotto uno dei due vascelli, si avvicinò ad uno dei due cavi, lo tranciò e lo collegò direttamente allo scafo della nave, incastrandolo in uno dei boccaporti di ispezione.
Strisciando, si intrufolò anche sotto l'altro caccia, ripetendo l'operazione appena escogitata.
Poi, rifacendo il percorso a ritroso, ritornò al generatore, ricollegando i cavi precedentemente scollegati.
Ora era tutto pronto, ma bisognava cogliere il momento adatto per la fuga. Il generatore si stava surriscaldando e un'ondata di energia si sarebbe liberata per tutti gli impianti.
Arthur, intanto, aveva quasi terminato i preparativi per il decollo, e con lo sguardo stava cercando Henry che era sparito.
«Dove eri finito? Qui è quasi tutto pronto!» gli disse, vedendolo arrivare tutto trafelato.
«Sali a bordo e decolla alla svelta!» gli rispose Henry sotto voce.
Arthur non ebbe modo di capire, ma venne preso per un braccio e trascinato dentro il trasporto.
I due raggiunsero rapidamente la cabina di pilotaggio e iniziarono il decollo, alzando una notevole nube di polvere, grazie alla spinta gravitazionale dei motori di manovra.
«Ma che cosa stanno facendo?» chiese adirato Padre Ignazio, accecato dalla nuvola di polvere.
Proprio in quell'istante il generatore avviò la procedura di sicurezza, rilasciando una quantità enorme di energia per tutto l'impianto, coinvolgendo tutti gli apparati che si bruciarono all'istante.
Anche gli impianti dei due caccia cominciarono a cortocircuitarsi, tra mille fiammate.
Nella confusione generale, il trasporto proseguì nel decollo fino a librarsi ed a lasciare l'area, tra il fuoco dei Templari a terra, ormai appiedati. Ma era tutto inutile: i mitra in dotazione non erano in grado di fermare un mezzo così grosso.
«Fermateli! Fermateli!» urlava a perdifiato Padre Ignazio, in preda alla collera.
Dopo aver superato rapidamente le difese orbitali sulla Terra, Arthur ed Henry avevano deciso di mettere il maggior numero di anni luce possibili tra loro e il Concilio delle Fedi.
Li avrebbe attesi sicuramente la morte, per la loro fuga, ma ormai si erano convinti entrambi che il loro destino era comunque segnato. Le informazioni che avevano scoperto sarebbero state sicuramente nascoste e sepolte con loro, per conservare per chissà quanti altri secoli quell'inconfessabile ritrovamento.
L'unica soluzione era dirigersi in qualche zona di confine, dove magari era possibile incontrare qualche elemento ancora fedele alle Galaxiacorp, e tentare di barattare quelle informazioni con la libertà, e magari un bel gruzzolo.
Decisero quindi di dirigersi verso il confine con il Braccio del Sagittario, nel sistema Angus, dove Henry conosceva qualcuno in grado di aiutarli.
«Ma ci potremo fidare?» chiese Arthur, preoccupato, mentre osservava avvicinarsi all'orizzonte la loro destinazione finale.
«Ora come ora non ci possiamo fidare di nessuno! Ma Casey l'ho conosciuta anni fa, in un campo scavi, e non è mai stata una simpatizzante delle religioni. Ha lavorato per anni per la Dugnac Enterprise!» rispose secco il compagno.
«E com'è?» chiese Arthur, alludendo a un qualche trascorso tra i due.
«É una donna! E con questo? Pensa ad atterrare tu, e non ti distrarre! É in gioco la nostra vita!» replicò Henry, scocciato dalla domanda.
Angus III era un pianeta come tanti, brullo, inquinato e caotico, insomma un posto perfetto per passare inosservati.
Sbrigate le procedure di atterraggio, il trasporto planò in un'area antistante all'agglomerato urbano, abbarbicato su una collina in modo disordinato, con luci, colori e profumi confusi e contrastanti, in un crogiolo di razze, stili architettonici e variopinte insegne.
I due uomini scesero subito dal vascello con la voglia di immergersi in quella bolgia, dopo diversi giorni di viaggio faticoso ed oltre un anno di isolamento dalla civiltà e dai divertimenti che offriva.
In ogni angolo delle tortuose strade che si districavano all'interno dell'agglomerato, locali di ogni tipo offrivano roboanti offerte, sconti e promozioni, cercando di attirare la fiumana di folla indifferente.
Dopo una breve occhiata per orientarsi, Henry e Arthur seguirono le indicazioni che la loro conoscente gli aveva inviato, riportate sul loro piccolo computer tascabile, invitandoli a raggiungerla in un locale non lontano.
Le insegne intermittenti del locale non erano molto distinguibili, ma permisero comunque ai due archeologi di raggiungere, tra la folla, il luogo dell'appuntamento.
Fuori dal locale, Casey stava aspettando appoggiata ad una delle colonne portanti del locale, come se stesse sostenendo da sola parte dello stabile.
Il suo sguardo era perso nella calca della folla, con fare annoiato e stanco, mentre si stringeva nell'impermeabile nero che le fasciava il corpo minuto.
Henry e Arthur la videro e si avvicinarono a lei senza dare troppo nell'occhio, seguendo alla lettera le indicazioni della donna.
Casey, senza dare nell'occhio, infilò un bigliettino nella tasca della giacca di Henry e si dileguò senza rivolger loro la parola.
Arthur non capiva il motivo di tutte quelle manfrine, ma Henry lo trattenne per un braccio, intimandogli di stare al gioco.
I due si allontanarono di alcuni metri dal locale, presero il biglietto e ritornarono sui loro passi.
«Ora ho capito perché non me ne avevi mai parlato...» disse Arthur, alludendo al fascino dell'australiana.
«Piantala! E vedi di non fare altre stronzate...» rispose seccato Henry, proseguendo tra la calca.
I due tornarono al loro vascello e attesero una buona mezz'ora in bella vista sul piazzale dello spazioporto.
Con tutta calma Casey arrivò, e senza salutarli proseguì verso il vano di carico dell'astronave.
Henry e Arthur la seguirono a breve distanza, mentre rimiravano il panorama ondeggiante che offriva il lungo e attillato soprabito nero.
Arrivati dietro l'astronave, Arthur aprì il vano di carico, e senza dire nulla Casey cominciò ad esaminare alcuni dei reperti.
«Vuoi vedere le analisi e la datazione? É tutto autentico!» cercò di interagire Arthur.
Ma Casey lo fulminò con il suo sguardo azzurro ghiaccio, e senza dire una parola pose un altro biglietto nelle mani di Henry, quindi se ne andò come se n'era venuta.
«Ma sa parlare almeno?» chiese Arthur, stranito da quel comportamento.
«Non lo so e non mi interessa! Chiudiamo questa storia e leviamoci da qui alla svelta! Il Concilio ci starà cercando in tutta la Galassia e non abbiamo tempo da perdere in smancerie.» replicò Henry, mentre cercava di capire le indicazioni sul biglietto.
Chiuso l'hangar, i due ripresero a vagare per le viuzze intasate della città, fino a raggiungere un'area residenziale più tranquilla e piuttosto curata.
Dopo diversi tentativi, Henry ed Arthur si ritrovarono finalmente davanti alla villetta indicata, in mezzo a molte abitazioni del tutto uguali, disseminate in modo ortogonale, come tante pedine su una scacchiera, dove nulla differiva, tranne per alcune indicazioni sui proprietari.
Suonarono al campanello, e le porte del cancello perimetrale si aprirono silenziose, come pure la porta dell'ingresso, invitandoli implicitamente ad entrare nella proprietà.
Una volta dentro, il cancello e la porta d'ingresso si chiusero dietro di loro, con un comando automatico, mentre Casey, di fronte a loro, li fissava con aria innervosita.
«Ce ne avete messo di tempo!» esclamò, tamburellando con le dita sul fianco, vistosamente indispettita.
«Questo posto è un labirinto! E poi che fretta c'è?» rispose Henry, sgarbato come al solito.
La donna senza replicare li introdusse nella sua dimora, piuttosto spoglia e con molti mobili ricavati direttamente nelle pareti. Nulla di personale appeso alle pareti o sui pensili, tutto sembrava come provvisorio, senza personalità.
«Prego, sedetevi.» disse Casey, mentre si accomodava su un divano, accavallando le lunghe gambe, avendo cura di coprirle con la corta gonna del tailleur.
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«Allora, veniamo al sodo! Ti interessa?» chiese Henry, senza perdere altro tempo.
«Ma perché non ci hai detto nulla per tutto il tempo...» intervenne Arthur, incuriosito.
«Qui l'area è schermata da rilevatori acustici, e sì, mi interessa! O meglio, interessa ai miei titolari...» rispose ad entrambi Casey, mentre alzandosi si dirigeva verso un mobile bar.
«Credi che qualcuno ci stia seguendo?» chiese Arthur, impaurito dalla risposta ricevuta.
«Semplici precauzioni, visto che da quello che mi dite si tratta di roba grossa... Scotch?» rispose la donna, mentre si apprestava a preparare alcuni drink.
Henry annuì all'offerta di una bevuta, mentre rimirava le curve sinuose della vecchia collega che gli dava le spalle, concentrandosi su pensieri ben più lascivi di quelli che il suo abbigliamento austero poteva suggerire.
«Certo, certo! Capisco!» replicò Arthur, dando un'occhiata al suo compagno e cercando di trattenersi dall'entrare nei dettagli della loro scoperta.
«Certo che è una roba grossa! Molto grossa! Potrebbe cambiare persino le sorti dell'attuale conflitto!» rincarò la dose Henry, con fare spavaldo.
Casey porse loro i drink tintinnanti e a sua volta posò il vassoio per servirsi, e innalzando il bicchiere esclamò: «Allora, al nostro futuro affare!».
Tutti bevvero, sorseggiando l'ottimo scotch, e posarono il bicchiere soddisfatti del brindisi, ma subito dopo Henry e Arthur cominciarono a sentirsi strani, cominciando ad arrancare, fino a cadere a terra svenuti, sotto lo sguardo compiaciuto di Casey.
Nello spazioporto, un'astronave piuttosto piccola e malconcia si stava affiancando alla banchisa dove il trasporto rubato era stato attraccato. Su questo piccolo cargo fervevano i preparativi per l'atterraggio, e un uomo calvo stava terminando di radersi il capo, ormai quasi completamente rasato.
«La nave è quella?» domandò Padre Ignazio al pilota, mentre terminava di ripulirsi dalla rasatura.
«Sì Padre! Il transponder funziona perfettamente! Non ci sono dubbi!» rispose il pilota del vascello, mentre terminava le operazioni di atterraggio.
Padre Ignazio gli diede una pacca sulla spalla e si diresse nella stiva della nave, dove almeno un centinaio di uomini si stavano travestendo, nascondendo le loro armi e le corazze in tela di ragno, coperte dalle insegne templari.
Avevano ormai seguito per giorni e senza sosta la fuga dei due traditori, grazie agli apparati presenti sul trasporto.
Padre Ignazio era furioso, e solo l'importanza della scoperta, unita alle raccomandazioni del Santo Padre, lo avevano portato a cercare di recuperare piuttosto che distruggere il trasporto con il comando a distanza in suo possesso.
Bisognava fare almeno un tentativo, anche se questo avrebbe comportato i rischi di una missione in terra ostile.
Ormai però l'onta e la rabbia muovevano i passi e le azioni del piccolo Padre Benedettino, con la forza che solo la fede può conferire.
«Fratelli, un attimo di attenzione! Ricordatevi che questa missione è in territorio nemico ed è della massima importanza che si riescano a ritrovare intatti i reperti trafugati! Non uscirete da qui, se non dietro mio diretto ordine e solo per recuperare la refurtiva. Tutto chiaro?» tuonò il Padre Superiore, guardando gli uomini con fierezza.
I Templari annuirono in silenzio, mentre terminavano di armare i mitra laser e le armi da fuoco in loro dotazione, oltre a un gruppo di robot di Serie F di supporto, armati con lanciamissili e cannoni anticarro.
«Siamo pronti allo sbarco!» si udì dalla cabina di pilotaggio.
«Voi due con me! Il resto in attesa di ordini!» esclamò Padre Ignazio, avviandosi verso il boccaporto di uscita.
Aperto il portellone di sbarco, il Padre Benedettino e i due Templari uscirono con calma dal vascello, si guardarono intorno, e senza perdere tempo si diressero spediti verso il trasporto.
La calca tutt'intorno non si curava certo di loro, tre mercanti come tanti altri in uno spazioporto affollato di gente e di mercanzie d'ogni tipo.
Arrivato piuttosto in fretta al boccaporto di poppa, Padre Ignazio estrasse un comando a distanza e provò ad azionarlo. Ma nulla, il comando sembrava disattivato.
Con un cenno ordinò ai due Templari di utilizzare le maniere forti, e senza perdere tempo essi cominciarono a montare una lancia laser in grado di tagliare lo scafo della nave, mentre Padre Ignazio si appostava poco lontano, tenendo d'occhio l'arrivo di qualcuno che potesse disturbarli.
Dopo diversi minuti di lavoro incessante, venne aperto nello scafo un varco sufficiente ad un uomo per entrare comodamente, ma ci volle qualche istante prima che i tre religiosi potessero resistere all'intenso calore sprigionato dal metallo ancora incandescente.
Appena il gruppo riuscì a penetrare nell'astronave, Padre Ignazio accese una torcia per l'illuminare l'interno della stiva, ma con suo grande stupore esclamò: «Niente! Niente! Hanno già portato via tutto! E ora come faremo? Cosa dirò al Santo Padre?».
I due Templari estrassero degli scanner portatili per refertare l'area, ma oltre alle impronte dei due fuggitivi non si trovavano al momento altri indizi rilevanti.
«Qui l'area è pulita! Cosa facciamo, Padre?» chiese uno dei due soldati.
«Lasciamo l'area! Azioneremo il detonatore non appena a distanza di sicurezza!» mormorò Padre Ignazio, vistosamente in collera.
«Ma Padre...» provò a intervenire il secondo soldato, ma il Frate Benedettino lo fulminò con uno sguardo pieno di odio e d'ira, e senza dare altre spiegazioni si diresse verso il varco da cui erano entrati.
Henry cominciò a guardarsi intorno, tentando di rialzarsi nel buio, ma si rese subito conto di essere legato mani e piedi ad una lastra di pietra.
Provò a liberarsi, ma si accorse che erano catene molto spesse quelle che lo assicuravano al suo nuovo giaciglio.
Intontito e spaesato, provò ad osservare meglio, cercando di stringere gli occhi, cosa lo circondava, e si rese conto che il suo amico Arthur si trovava nelle sue stesse condizioni di fianco a lui.
Inoltre si rese conto di un ulteriore dettaglio, non di poco conto. Era completamente nudo, solo un lenzuolo striminzito ricopriva le sue intimità.
«Arthur! Arthur! Svegliati, maledizione! Arthur!» bisbigliò Henry, alzando sempre di più il tono della sua voce.
Il compagno sembrava non reagire ai suoi richiami, poi, d'un colpo, tentò di alzarsi di scatto, ma venne trattenuto dalle pesanti catene.
«Henry, dove sei? Ma che sta succedendo?» gli rispose, ripresosi velocemente dal torpore.
«Non lo so! Mi ricordo solo che eravamo a casa di Casey e...» ripensava ad alta voce l'uomo, cercando di divincolarsi senza successo.
Ma proprio in quel momento, in modo del tutto inatteso, alcune torce appese alle pareti si accesero, quasi come possedute dalla fiamma che improvvisamente aveva cominciato ad ardere.
La luce che emanavano mostrava ai due compagni una sala ottagonale, scavata nella roccia nera, disadorna e piena di ragnatele e insetti nerastri che camminavano sul pavimento, brulicando come impazziti.
Alle base delle pareti, inoltre, si scorgevano i reperti collocati contro di esse e quasi completamente coperti dagli insetti.
«Ma cosa sono, Henry? Cosa sono?» chiedeva sempre più spaventato Arthur.
Il compagno provò a mettere a fuoco meglio, cercando di distinguere sul pavimento gli insetti presi nella frenesia di trovare nuovamente il buio, e rispose: «Sembrano scarabei... Ma in che posto ci hanno portato?».
Proprio in quel momento una figura femminile fece il suo ingresso da un lato della sala, adornata con gioielli in stile egizio, dai colori e dalla foggia ricchissimi, che ricoprivano la testa e parte del petto nudo, mentre una veste bianca, fermata con un gioiello alla vita, le ricopriva i fianchi e le gambe.
A piedi nudi camminava lentamente, noncurante di calpestare gli insetti con il suo procedere, recitando una nenia incomprensibile.
Avanzava con gli occhi sbarrati e rivolti all'insù, ma come se fosse in grado di vedere tranquillamente davanti a sé, fino a fermarsi al centro della sala e a rivolgersi ai due prigionieri.
Era Casey.
La donna continuava nella sua cantilena, avvicinandosi alla pietra su cui era legato Henry, che non capendo urlò: «Ehi! Ma che scherzi sono questi? Sono Henry! Mi riconosci?».
Ma Casey continuava nella sua litania, mentre sollevava lentamente con il braccio sinistro un enorme pugnale d'oro ricurvo, ricoperto di pietre preziose.
Poi si interruppe, affondando il coltello nel petto di Henry, e gridando: «Seth! Vieni a me!», mentre le urla di morte dell'uomo si mescolavano a quelle di terrore di Arthur, e i bagliori di un'esplosione nucleare illuminavano a giorno tutta la sala.
La nuova via
Samaldas era lì, tutto impettito a guardare dal grande oblò di fronte a sé la meraviglia tecnologica che aveva concepito oltre tre anni prima, ormai completata e pronta per il primo test ufficiale.
Con una punta d’orgoglio rimirava quel portale, che lo avrebbe immortalato nella storia della scienza e dell'umanità intera. Uno strumento in grado di permettere ad un qualunque tipo di vascello di navigare a velocità iperspaziale, anche senza motori o una struttura dello scafo predisposta per lo scopo.
Una rivoluzione per la navigazione spaziale, che avrebbe permesso balzi inimmaginabili all'umanità sotto il dominio del Concilio delle Fedi.
Era già dalle prime ore di quella giornata che fremeva, osservando da lontano gli ultimi preparativi, prima del test che si sarebbe svolto nel pomeriggio, ora locale, con diversi dignitari e famigliari della sua potente casta ad attendere, impazienti quanto lui, la sua consacrazione come scienziato e come fedele suddito del suo credo.
Sin dalle prime verifiche sul campo, i risultati incoraggianti l'avevano spinto a proseguire spedito verso questa soluzione ardita, ma allo stesso tempo semplice: due portali, collegati tra loro da una fitta rete di comunicazioni, permettevano di generare un campo gravitazionale tale da creare un tunnel nello spazio nullo e un canale stabile tra due punti dell'universo, facilmente attraversabile.
La nave necessitava solo di piccoli accorgimenti tecnici per salvaguardare l'equipaggio dalle distorsioni magnetiche generate dal tunnel spaziale, per il resto non serviva altro.
Non servivano i complessi e costosi motori, computer e strumentazioni in grado di analizzare lo spazio remoto, insomma bastava un qualunque shuttle per poter coprire distanze impensabili.
Mentre Samaldas ripensava a tutto quello che avrebbe portato questa sua scoperta, una donna si affacciò dalla porta aperta del suo ufficio.
«É permesso?» chiese una voce da dietro l'uscio.
«Prego, Pratibha, entri, entri pure» rispose lo scienziato, invitando la donna ad avvicinarsi.
Con movimenti lenti e sussiegosi la donna entrò nella stanza, tenendo lo sguardo in basso, e senza avvicinarsi troppo all'uomo.
Non le era permesso, data la sua condizione di intoccabile, approcciarsi diversamente ad un componente della casta dei bramini, il vertice della società hindu.
«I preparativi della navetta per il collaudo sono terminati, dottor Mishra» disse Pratibha, sempre a voce bassa.
Samaldas, senza dilungarsi troppo in convenevoli, si precipitò a chiudere la porta della sua stanza, sigillandola con l'apposito comando posto sullo stipite.
«Finalmente! É da stamane che aspetto di vederti!» disse sospirante l'uomo, avvicinandosi e stringendole le mani amorevolmente.
«Ero alle prese con gli ultimi preparativi sull'astronave...» replicò Pratibha un po' riluttante, lasciando ben presto le mani dello scienziato.
«Ma cos'è che ti turba? Vedrai che l'esperimento andrà bene...» le domandava incalzante Samaldas, cercando nuovamente il contatto con la donna.
«Non è per questo! É per noi due! Non possiamo nasconderci in eterno!» replicò sospirante la donna, appoggiandosi al petto dell'uomo.
Nelle rigide tradizioni delle caste braminiche non sarebbe stato nemmeno immaginabile un simile approccio tra un'intoccabile e un membro dei Sattva.
E invece le imperscrutabili vie dell'amore avevano avvicinato due esseri tanto lontani, quanto attratti l'uno dall'altro in modo così indissolubile.
«Non ti dovrai più preoccupare di questo! Finito l'esperimento annunceremo a tutti il nostro amore e nessuno potrà più impedirlo. Raggiungerò una tale gloria e riconoscenza che nessuno potrà opporsi alla nostra unione!» rispose spavaldo Samaldas, mentre stringeva a sé la sua amata.
«E tuo padre? Io non voglio che per causa mia...» rispose insicura Pratibha, alzando gli occhi, in cerca di conforto.
«Mio padre dovrà accettarlo come tutti gli altri! Non potrà nulla di fronte al successo della nostra invenzione. Ma lo capisci? Tutte le astronavi saranno in grado di varcare le immensità dello spazio senza fatica, e a basso costo! Una tale rivoluzione può ben valere l'abbandono di certe stupide convenzioni!» insistette lo scienziato, sempre più infervorato nel suo discorso.
«Lo spero tanto, Samaldas... Lo spero tanto per noi due!» rispose la donna, avvicinandosi lentamente alle labbra del suo amato.
I due si baciarono teneramente, ma celando i loro desideri e le loro paure.
«Ora devo andare a prepararmi...» sussurrò Pratibha, lasciando le labbra del compagno.
«Sì, vai e guida il nostro prototipo verso la vittoria!» rispose con lo sguardo rapito Samaldas.
La donna lasciò l'abbraccio del suo compagno a malincuore, e si diresse verso l'uscita, con lo sguardo che ancora si ostinava a non lasciare il suo amato.
Aprì la porta ma, mentre varcava la soglia, vide sopraggiungere Kabir Mishra, il padre di Samaldas, e abbassando lo sguardo deviò rapidamente nella direzione opposta alla sua, nel mal celato tentativo di non farsi vedere.
L'anziano bramino si avvicinava a passi decisi verso la porta dell'ufficio del figlio, e non mancò di notare la paria allontanarsi in fretta.
Con un sospiro amaro scosse la testa ed entrò nell'ufficio del figlio, amareggiato.
Aveva tanto cercato di allontanare quella donna impura dalla testa del suo erede, ma a nulla erano valsi i suoi rimproveri, tanto che alla fine si era rassegnato ad attendere impotente l'onta e il disonore.
«Padre, grazie per essere venuto a trovarmi...» lo accolse Samaldas, con una punta di preoccupazione.
Sospettava che il suo arrivo fosse coinciso con l'uscita della sua compagna, ma cercò di concentrarsi su altro, per evitare l'argomento almeno in quel giorno così importante per lui.
«Che padre sarei se non venissi nel giorno più importante per mio figlio a porgergli i miei saluti ed augurargli ogni bene!» rispose Kabir, con modi gentili.
La sua lunga barba bianca e la sua apparente pacatezza mal celavano il fastidio che provava in quel momento. Magari poco prima il figlio aveva amoreggiato con quell'essere inferiore e il solo pensiero lo disturbava, a tal punto da tenere le distanze da lui.
«Tutto procede come previsto?» domandò il padre, con apparente curiosità.
«Sì! Tra poche ore cominceremo l'esperimento. Ci sarai?» chiese a sua volta, con velata preoccupazione, Samaldas.
I rapporti con suo padre erano sempre stati difficili, ancor prima che le cose con Pratibha fossero arrivate alle sue orecchie. Per lui aveva previsto la carriera ascetica e non certo quella dello scienziato, ma alla fine aveva accettato a malincuore la sua caparbietà, anche in vista dei grandi risultati che aveva raggiunto e che avevano dato lustro alla famiglia.
Ma quell'amore certo non poteva accettarlo passivamente, lui così attaccato e legato al credo della sua gente e alle usanze e ai riti che si tramandavano come ultimo baluardo della loro umanità.
Ci furono alcuni istanti di assoluto silenzio in cui i due uomini guardavano dall'enorme oblò dell'ufficio, in cerca di parole improbabili da trovare.
«Ora scusami, devo proprio lasciarti! Devo recarmi al portale per gli ultimi controlli!» esordì Samaldas, per rompere il silenzio opprimente che lo infastidiva.
Per un attimo Kabir non disse nulla, quasi preso di soprassalto dalla frase del figlio, poi, quando lui stava ormai per varcare la soglia della porta, sussurrò appena: «Che Brahma illumini il tuo cammino...»
Dopo alcune ore di ferventi preparativi tutto il personale stava abbandonando i portali, lasciando che i computer prendessero il controllo delle installazioni.
Lentamente i due enormi ponti iperspaziali iniziavano le operazioni di calibrazione della traiettoria e attivavano i generatori a fusione per caricare gli impianti di trasmissione e ricezione della materia, in uno sfavillante luccichio di spie e sistemi di segnalazione.
Non molto lontano si stava posizionando il vascello preparato per l'esperimento, con a bordo Pratibha e un'infinità di sistemi di rilevamento e apparecchiature di sicurezza, pronte a diagnosticare ed analizzare tutti i dati rilevabili durante l'esperimento.
Nell'angusto abitacolo la donna si era portata con sé una piccola cornice olografica che materializzava Samaldas in diverse posture e immagini rubate dai loro fugaci incontri.
Era un modo ardito di conservare quel legame, quei ricordi fugaci dei loro furtivi appuntamenti.
In quel momento così difficile e carico di tensione l'avrebbe voluto avere al suo fianco, ma non era possibile; doveva accontentarsi e aspettare che il successo di quell'impresa li liberasse finalmente dalla loro condizione disagiata di amanti clandestini.
A debita distanza, una flotta di astronavi del Concilio delle Fedi, con a bordo numerose rappresentanze importanti tra gli scienziati e i fedeli più eminenti della galassia, si era assiepata in attesa dello svolgersi dell'esperimento, per assistere, come ad un evento sportivo, a questa mirabolante impresa.
Molte erano le aspettative e Samaldas, sul suo vascello, sentiva sempre più la tensione salirgli in gola, mentre davanti alla consolle principale verificava gli ultimi dettagli dell'esperimento.
Attorno a lui una moltitudine di tecnici fremeva e si agitava nei preparativi affollando le diverse postazioni di controllo presenti.
«Tutti i sistemi operativi! Inizia il conto alla rovescia! Dieci minuti all'apertura del passaggio iperspaziale!» esclamava l'addetto alle operazioni.
La sua voce risuonava per tutta la sala e veniva divulgata tramite una trasmissione video a tutte le astronavi della flotta, collegate per seguire ogni dettaglio dell'evento.
Samaldas ordinò di aprire un canale di comunicazione con l'astronave pronta per l'esperimento, per le ultime verifiche.
«Qui è il vascello Indra I! Tutti i sistemi operativi! Siamo pronti alla fase di avvicinamento al portale!» comunicava Pratibha, dal monitor principale della sala comando.
Samaldas cercò di trattenere la commozione nel vedere sul grande schermo l'immagine serena della sua amata, ma ebbe un attimo di esitazione, prima di chiudere la chiamata e proseguire con le operazioni.
Alle sue spalle, tra i molti spettatori, suo padre Kabir restava impassibile, ma mal celava il suo tormento nel vedere quella donna e gli atteggiamenti di suo figlio.
Avrebbe voluto sprofondare.
Intanto i portali avevano terminato il loro allineamento e si stavano apprestando ad attivare i rispettivi varchi iperspaziali.
I generatori erano ormai caricati al massimo, pronti ad elargire tutta la loro potenza alle bobine gravitazionali, per piegare lo spazio al loro interno.
«É tutto pronto! Possiamo dare il via al countdown finale?» chiedeva l'addetto alle operazioni.
Con un gesto del capo Samaldas gli diede l'ordine e il tecnico esclamò: «Inizia il conto alla rovescia per l'attivazione dei portali! Trenta secondi all'innesco!».
Quelle parole risuonarono nella sala, mettendo a tacere il brusio che tutte quelle persone avevano finora prodotto, mentre gli addetti direttamente coinvolti nelle operazioni erano tutti presi dagli ultimi dettagli.
I due portali, monitorati da due differenti quadranti dello schermo principale, iniziarono lentamente a ridurre ogni attività di diagnostica e comunicazione, concentrando tutte le energie per generare il rispettivo varco iperspaziale.
«Dieci... Nove... Otto... Sette... Sei... Cinque... Quattro... Tre... Due... Uno... Innesco varco iperspaziale!» esclamò con sempre maggiore enfasi l'addetto alle operazioni.
Ci fu un momento di calma apparente, poi l’immensa energia gravitazionale venne sprigionata in un istante, generando un vortice nerastro, che ruotava lentamente all'interno di entrambi i portali.
I vortici si ingrandivano sempre più fino a lambire i bordi dei due portali, stabilizzandosi dopo alcuni secondi, e roteando con la stessa velocità, perdendosi in un cono che sembrava disperdersi nello spazio.
A prima vista sembravano due mulinelli d'acqua sporca che roteavano risucchiati da chissà quale scarico.
«Portale aperto! Tutti i sistemi segnalano luce verde!» esclamò senza trattenere la gioia l'addetto alle operazioni.
Gli spettatori e molti degli addetti si lasciarono andare a manifestazioni di esultanza, ma subito ripresero le loro postazioni, per il proseguimento dell'esperimento.
Samaldas era rimasto in piedi, impassibile, ad osservare che ogni strumento e ogni sistema diagnostico fosse in perfette condizioni.
Ora sarebbe arrivata la parte più difficile: il portale doveva rimanere stabile anche con l'ingresso di un corpo estraneo, e permetterne l'attraversamento e la materializzazione senza danni e senza compromettere la vita a bordo.
Quella vita a lui tanto cara...
«Qui è il vascello Indra I! Procedo con le operazioni di avvicinamento al portale!» comunicava Pratibha, avvisando dell'avvio della seconda parte dell'esperimento.
«Qui è la sala controllo! Procedi pure, qui i sistemi segnalano tutti luce verde!» rispose l'addetto alle operazioni.
Lentamente il piccolo vascello, con i propulsori di manovra, si avvicinava verso il primo portale, enorme rispetto alle sue piccole dimensioni.
Dalla sua cabina Pratibha osservava l'enorme vortice di fronte a sé che cupo e lento continuava a vorticare verso il “nulla”, lo squarcio nello spazio e nel tempo che di lì a poco avrebbe varcato.
«Qui è il vascello Indra I! Sono in posizione! Attendo istruzioni per l'attraversamento!» comunicava Pratibha, terminando di posizionare il suo vascello alle coordinate prestabilite.
«Qui è la sala controllo! Inizia l'attraversamento! Qui i sistemi segnalano tutti luce verde!» rispose prontamente l'addetto.
La donna senza indugiare diede la massima potenza ai motori di manovra, iniziando ad avvicinarsi al vortice per farsi inghiottire e trasportare a destinazione.
Sempre più velocemente l'Indra I si avvicinava, fino a toccare con la prua l'enorme varco iperspaziale.
In quel momento la sua massa veniva a poco a poco scomposta, liquefatta, inghiottita dal varco e trasformata a sua volta nella materia nerastra vorticante.
«Stanno iniziando le operazioni di smaterializzazione! Tutti i sistemi segnalano luce verde!» esclamò l'addetto alle operazioni.
Samaldas non nascondeva la sua ansia che ormai era al limite. Erano finalmente giunti al momento cruciale che dopo tanti anni si stava avverando davanti ai suoi occhi.
A poco a poco il piccolo vascello entrava nel vortice fino a venirne completamente inghiottito e iniziando a ricomparire dall'altra parte, sul secondo portale, rimaterializzandosi come previsto.
Ma proprio quando stava ricomparendo una piccola porzione della prua dell'Indra I, una serie di strumenti segnalarono un'instabilità del varco.
Gli addetti cominciarono freneticamente a verificare le loro strumentazioni e ad agitarsi alle varie consolle. Samaldas si rese subito conto che qualcosa non andava e si avvicinò all'addetto alle operazioni.
«Lo stiamo perdendo! Si sta degradando! Stiamo cercando di compensare!» esclamò affannato il tecnico.
Ma le sue parole arrivavano quando ormai era evidente agli occhi di tutti cosa stava accadendo.
Il vortice del secondo portale stava rallentando il suo moto, mentre il primo stava accelerando e ingrandendo le sue dimensioni, destabilizzandosi sempre di più, fino ad iniziare a risucchiare la struttura che l'aveva generato.
L'Idra I, intrappolata nel portale, non era ancora uscita, mostrando appena una piccola parte della prua che si stava sbriciolando al contatto con lo spazio esterno.
Lentamente, ma inesorabilmente, le tremende forze scatenate nell'esperimento si stavano ribellando ai loro creatori e mentre il primo portale stava per essere inghiottito dal primo varco il secondo si stava accartocciando su se stesso, piegato dalle enormi forze gravitazionali ormai fuori controllo, e come una pianta avvizzita dal caldo si sgretolò, tra le esplosioni che venivano risucchiate a loro volta.
Tutti i presenti restarono ammutoliti di fronte a quel fallimento, a quella tragedia inaspettata.
Samaldas, ormai completamente svuotato, si inginocchiò senza forze, come se i vortici del portale avessero risucchiato anche la sua anima, la sua esistenza.
Solo una persona, tra il brusio e lo sgomento, osservava con una certa serenità lo scempio enorme che era avvenuto davanti ai loro occhi.
Kabir, che guardava quasi compiaciuto la fine del suo incubo, e l'inizio di quello del figlio.
Con una punta d’orgoglio rimirava quel portale, che lo avrebbe immortalato nella storia della scienza e dell'umanità intera. Uno strumento in grado di permettere ad un qualunque tipo di vascello di navigare a velocità iperspaziale, anche senza motori o una struttura dello scafo predisposta per lo scopo.
Una rivoluzione per la navigazione spaziale, che avrebbe permesso balzi inimmaginabili all'umanità sotto il dominio del Concilio delle Fedi.
Era già dalle prime ore di quella giornata che fremeva, osservando da lontano gli ultimi preparativi, prima del test che si sarebbe svolto nel pomeriggio, ora locale, con diversi dignitari e famigliari della sua potente casta ad attendere, impazienti quanto lui, la sua consacrazione come scienziato e come fedele suddito del suo credo.
Sin dalle prime verifiche sul campo, i risultati incoraggianti l'avevano spinto a proseguire spedito verso questa soluzione ardita, ma allo stesso tempo semplice: due portali, collegati tra loro da una fitta rete di comunicazioni, permettevano di generare un campo gravitazionale tale da creare un tunnel nello spazio nullo e un canale stabile tra due punti dell'universo, facilmente attraversabile.
La nave necessitava solo di piccoli accorgimenti tecnici per salvaguardare l'equipaggio dalle distorsioni magnetiche generate dal tunnel spaziale, per il resto non serviva altro.
Non servivano i complessi e costosi motori, computer e strumentazioni in grado di analizzare lo spazio remoto, insomma bastava un qualunque shuttle per poter coprire distanze impensabili.
Mentre Samaldas ripensava a tutto quello che avrebbe portato questa sua scoperta, una donna si affacciò dalla porta aperta del suo ufficio.
«É permesso?» chiese una voce da dietro l'uscio.
«Prego, Pratibha, entri, entri pure» rispose lo scienziato, invitando la donna ad avvicinarsi.
Con movimenti lenti e sussiegosi la donna entrò nella stanza, tenendo lo sguardo in basso, e senza avvicinarsi troppo all'uomo.
Non le era permesso, data la sua condizione di intoccabile, approcciarsi diversamente ad un componente della casta dei bramini, il vertice della società hindu.
«I preparativi della navetta per il collaudo sono terminati, dottor Mishra» disse Pratibha, sempre a voce bassa.
Samaldas, senza dilungarsi troppo in convenevoli, si precipitò a chiudere la porta della sua stanza, sigillandola con l'apposito comando posto sullo stipite.
«Finalmente! É da stamane che aspetto di vederti!» disse sospirante l'uomo, avvicinandosi e stringendole le mani amorevolmente.
«Ero alle prese con gli ultimi preparativi sull'astronave...» replicò Pratibha un po' riluttante, lasciando ben presto le mani dello scienziato.
«Ma cos'è che ti turba? Vedrai che l'esperimento andrà bene...» le domandava incalzante Samaldas, cercando nuovamente il contatto con la donna.
«Non è per questo! É per noi due! Non possiamo nasconderci in eterno!» replicò sospirante la donna, appoggiandosi al petto dell'uomo.
Nelle rigide tradizioni delle caste braminiche non sarebbe stato nemmeno immaginabile un simile approccio tra un'intoccabile e un membro dei Sattva.
E invece le imperscrutabili vie dell'amore avevano avvicinato due esseri tanto lontani, quanto attratti l'uno dall'altro in modo così indissolubile.
«Non ti dovrai più preoccupare di questo! Finito l'esperimento annunceremo a tutti il nostro amore e nessuno potrà più impedirlo. Raggiungerò una tale gloria e riconoscenza che nessuno potrà opporsi alla nostra unione!» rispose spavaldo Samaldas, mentre stringeva a sé la sua amata.
«E tuo padre? Io non voglio che per causa mia...» rispose insicura Pratibha, alzando gli occhi, in cerca di conforto.
«Mio padre dovrà accettarlo come tutti gli altri! Non potrà nulla di fronte al successo della nostra invenzione. Ma lo capisci? Tutte le astronavi saranno in grado di varcare le immensità dello spazio senza fatica, e a basso costo! Una tale rivoluzione può ben valere l'abbandono di certe stupide convenzioni!» insistette lo scienziato, sempre più infervorato nel suo discorso.
«Lo spero tanto, Samaldas... Lo spero tanto per noi due!» rispose la donna, avvicinandosi lentamente alle labbra del suo amato.
I due si baciarono teneramente, ma celando i loro desideri e le loro paure.
«Ora devo andare a prepararmi...» sussurrò Pratibha, lasciando le labbra del compagno.
«Sì, vai e guida il nostro prototipo verso la vittoria!» rispose con lo sguardo rapito Samaldas.
La donna lasciò l'abbraccio del suo compagno a malincuore, e si diresse verso l'uscita, con lo sguardo che ancora si ostinava a non lasciare il suo amato.
Aprì la porta ma, mentre varcava la soglia, vide sopraggiungere Kabir Mishra, il padre di Samaldas, e abbassando lo sguardo deviò rapidamente nella direzione opposta alla sua, nel mal celato tentativo di non farsi vedere.
L'anziano bramino si avvicinava a passi decisi verso la porta dell'ufficio del figlio, e non mancò di notare la paria allontanarsi in fretta.
Con un sospiro amaro scosse la testa ed entrò nell'ufficio del figlio, amareggiato.
Aveva tanto cercato di allontanare quella donna impura dalla testa del suo erede, ma a nulla erano valsi i suoi rimproveri, tanto che alla fine si era rassegnato ad attendere impotente l'onta e il disonore.
«Padre, grazie per essere venuto a trovarmi...» lo accolse Samaldas, con una punta di preoccupazione.
Sospettava che il suo arrivo fosse coinciso con l'uscita della sua compagna, ma cercò di concentrarsi su altro, per evitare l'argomento almeno in quel giorno così importante per lui.
«Che padre sarei se non venissi nel giorno più importante per mio figlio a porgergli i miei saluti ed augurargli ogni bene!» rispose Kabir, con modi gentili.
La sua lunga barba bianca e la sua apparente pacatezza mal celavano il fastidio che provava in quel momento. Magari poco prima il figlio aveva amoreggiato con quell'essere inferiore e il solo pensiero lo disturbava, a tal punto da tenere le distanze da lui.
«Tutto procede come previsto?» domandò il padre, con apparente curiosità.
«Sì! Tra poche ore cominceremo l'esperimento. Ci sarai?» chiese a sua volta, con velata preoccupazione, Samaldas.
I rapporti con suo padre erano sempre stati difficili, ancor prima che le cose con Pratibha fossero arrivate alle sue orecchie. Per lui aveva previsto la carriera ascetica e non certo quella dello scienziato, ma alla fine aveva accettato a malincuore la sua caparbietà, anche in vista dei grandi risultati che aveva raggiunto e che avevano dato lustro alla famiglia.
Ma quell'amore certo non poteva accettarlo passivamente, lui così attaccato e legato al credo della sua gente e alle usanze e ai riti che si tramandavano come ultimo baluardo della loro umanità.
Ci furono alcuni istanti di assoluto silenzio in cui i due uomini guardavano dall'enorme oblò dell'ufficio, in cerca di parole improbabili da trovare.
«Ora scusami, devo proprio lasciarti! Devo recarmi al portale per gli ultimi controlli!» esordì Samaldas, per rompere il silenzio opprimente che lo infastidiva.
Per un attimo Kabir non disse nulla, quasi preso di soprassalto dalla frase del figlio, poi, quando lui stava ormai per varcare la soglia della porta, sussurrò appena: «Che Brahma illumini il tuo cammino...»
Dopo alcune ore di ferventi preparativi tutto il personale stava abbandonando i portali, lasciando che i computer prendessero il controllo delle installazioni.
Lentamente i due enormi ponti iperspaziali iniziavano le operazioni di calibrazione della traiettoria e attivavano i generatori a fusione per caricare gli impianti di trasmissione e ricezione della materia, in uno sfavillante luccichio di spie e sistemi di segnalazione.
Non molto lontano si stava posizionando il vascello preparato per l'esperimento, con a bordo Pratibha e un'infinità di sistemi di rilevamento e apparecchiature di sicurezza, pronte a diagnosticare ed analizzare tutti i dati rilevabili durante l'esperimento.
Nell'angusto abitacolo la donna si era portata con sé una piccola cornice olografica che materializzava Samaldas in diverse posture e immagini rubate dai loro fugaci incontri.
Era un modo ardito di conservare quel legame, quei ricordi fugaci dei loro furtivi appuntamenti.
In quel momento così difficile e carico di tensione l'avrebbe voluto avere al suo fianco, ma non era possibile; doveva accontentarsi e aspettare che il successo di quell'impresa li liberasse finalmente dalla loro condizione disagiata di amanti clandestini.
A debita distanza, una flotta di astronavi del Concilio delle Fedi, con a bordo numerose rappresentanze importanti tra gli scienziati e i fedeli più eminenti della galassia, si era assiepata in attesa dello svolgersi dell'esperimento, per assistere, come ad un evento sportivo, a questa mirabolante impresa.
Molte erano le aspettative e Samaldas, sul suo vascello, sentiva sempre più la tensione salirgli in gola, mentre davanti alla consolle principale verificava gli ultimi dettagli dell'esperimento.
Attorno a lui una moltitudine di tecnici fremeva e si agitava nei preparativi affollando le diverse postazioni di controllo presenti.
«Tutti i sistemi operativi! Inizia il conto alla rovescia! Dieci minuti all'apertura del passaggio iperspaziale!» esclamava l'addetto alle operazioni.
La sua voce risuonava per tutta la sala e veniva divulgata tramite una trasmissione video a tutte le astronavi della flotta, collegate per seguire ogni dettaglio dell'evento.
Samaldas ordinò di aprire un canale di comunicazione con l'astronave pronta per l'esperimento, per le ultime verifiche.
«Qui è il vascello Indra I! Tutti i sistemi operativi! Siamo pronti alla fase di avvicinamento al portale!» comunicava Pratibha, dal monitor principale della sala comando.
Samaldas cercò di trattenere la commozione nel vedere sul grande schermo l'immagine serena della sua amata, ma ebbe un attimo di esitazione, prima di chiudere la chiamata e proseguire con le operazioni.
Alle sue spalle, tra i molti spettatori, suo padre Kabir restava impassibile, ma mal celava il suo tormento nel vedere quella donna e gli atteggiamenti di suo figlio.
Avrebbe voluto sprofondare.
Intanto i portali avevano terminato il loro allineamento e si stavano apprestando ad attivare i rispettivi varchi iperspaziali.
I generatori erano ormai caricati al massimo, pronti ad elargire tutta la loro potenza alle bobine gravitazionali, per piegare lo spazio al loro interno.
«É tutto pronto! Possiamo dare il via al countdown finale?» chiedeva l'addetto alle operazioni.
Con un gesto del capo Samaldas gli diede l'ordine e il tecnico esclamò: «Inizia il conto alla rovescia per l'attivazione dei portali! Trenta secondi all'innesco!».
Quelle parole risuonarono nella sala, mettendo a tacere il brusio che tutte quelle persone avevano finora prodotto, mentre gli addetti direttamente coinvolti nelle operazioni erano tutti presi dagli ultimi dettagli.
I due portali, monitorati da due differenti quadranti dello schermo principale, iniziarono lentamente a ridurre ogni attività di diagnostica e comunicazione, concentrando tutte le energie per generare il rispettivo varco iperspaziale.
«Dieci... Nove... Otto... Sette... Sei... Cinque... Quattro... Tre... Due... Uno... Innesco varco iperspaziale!» esclamò con sempre maggiore enfasi l'addetto alle operazioni.
Ci fu un momento di calma apparente, poi l’immensa energia gravitazionale venne sprigionata in un istante, generando un vortice nerastro, che ruotava lentamente all'interno di entrambi i portali.
I vortici si ingrandivano sempre più fino a lambire i bordi dei due portali, stabilizzandosi dopo alcuni secondi, e roteando con la stessa velocità, perdendosi in un cono che sembrava disperdersi nello spazio.
A prima vista sembravano due mulinelli d'acqua sporca che roteavano risucchiati da chissà quale scarico.
«Portale aperto! Tutti i sistemi segnalano luce verde!» esclamò senza trattenere la gioia l'addetto alle operazioni.
Gli spettatori e molti degli addetti si lasciarono andare a manifestazioni di esultanza, ma subito ripresero le loro postazioni, per il proseguimento dell'esperimento.
Samaldas era rimasto in piedi, impassibile, ad osservare che ogni strumento e ogni sistema diagnostico fosse in perfette condizioni.
Ora sarebbe arrivata la parte più difficile: il portale doveva rimanere stabile anche con l'ingresso di un corpo estraneo, e permetterne l'attraversamento e la materializzazione senza danni e senza compromettere la vita a bordo.
Quella vita a lui tanto cara...
«Qui è il vascello Indra I! Procedo con le operazioni di avvicinamento al portale!» comunicava Pratibha, avvisando dell'avvio della seconda parte dell'esperimento.
«Qui è la sala controllo! Procedi pure, qui i sistemi segnalano tutti luce verde!» rispose l'addetto alle operazioni.
Lentamente il piccolo vascello, con i propulsori di manovra, si avvicinava verso il primo portale, enorme rispetto alle sue piccole dimensioni.
Dalla sua cabina Pratibha osservava l'enorme vortice di fronte a sé che cupo e lento continuava a vorticare verso il “nulla”, lo squarcio nello spazio e nel tempo che di lì a poco avrebbe varcato.
«Qui è il vascello Indra I! Sono in posizione! Attendo istruzioni per l'attraversamento!» comunicava Pratibha, terminando di posizionare il suo vascello alle coordinate prestabilite.
«Qui è la sala controllo! Inizia l'attraversamento! Qui i sistemi segnalano tutti luce verde!» rispose prontamente l'addetto.
La donna senza indugiare diede la massima potenza ai motori di manovra, iniziando ad avvicinarsi al vortice per farsi inghiottire e trasportare a destinazione.
Sempre più velocemente l'Indra I si avvicinava, fino a toccare con la prua l'enorme varco iperspaziale.
In quel momento la sua massa veniva a poco a poco scomposta, liquefatta, inghiottita dal varco e trasformata a sua volta nella materia nerastra vorticante.
«Stanno iniziando le operazioni di smaterializzazione! Tutti i sistemi segnalano luce verde!» esclamò l'addetto alle operazioni.
Samaldas non nascondeva la sua ansia che ormai era al limite. Erano finalmente giunti al momento cruciale che dopo tanti anni si stava avverando davanti ai suoi occhi.
A poco a poco il piccolo vascello entrava nel vortice fino a venirne completamente inghiottito e iniziando a ricomparire dall'altra parte, sul secondo portale, rimaterializzandosi come previsto.
Ma proprio quando stava ricomparendo una piccola porzione della prua dell'Indra I, una serie di strumenti segnalarono un'instabilità del varco.
Gli addetti cominciarono freneticamente a verificare le loro strumentazioni e ad agitarsi alle varie consolle. Samaldas si rese subito conto che qualcosa non andava e si avvicinò all'addetto alle operazioni.
«Lo stiamo perdendo! Si sta degradando! Stiamo cercando di compensare!» esclamò affannato il tecnico.
Ma le sue parole arrivavano quando ormai era evidente agli occhi di tutti cosa stava accadendo.
Il vortice del secondo portale stava rallentando il suo moto, mentre il primo stava accelerando e ingrandendo le sue dimensioni, destabilizzandosi sempre di più, fino ad iniziare a risucchiare la struttura che l'aveva generato.
L'Idra I, intrappolata nel portale, non era ancora uscita, mostrando appena una piccola parte della prua che si stava sbriciolando al contatto con lo spazio esterno.
Lentamente, ma inesorabilmente, le tremende forze scatenate nell'esperimento si stavano ribellando ai loro creatori e mentre il primo portale stava per essere inghiottito dal primo varco il secondo si stava accartocciando su se stesso, piegato dalle enormi forze gravitazionali ormai fuori controllo, e come una pianta avvizzita dal caldo si sgretolò, tra le esplosioni che venivano risucchiate a loro volta.
Tutti i presenti restarono ammutoliti di fronte a quel fallimento, a quella tragedia inaspettata.
Samaldas, ormai completamente svuotato, si inginocchiò senza forze, come se i vortici del portale avessero risucchiato anche la sua anima, la sua esistenza.
Solo una persona, tra il brusio e lo sgomento, osservava con una certa serenità lo scempio enorme che era avvenuto davanti ai loro occhi.
Kabir, che guardava quasi compiaciuto la fine del suo incubo, e l'inizio di quello del figlio.
Il teorema di Soltzmann
Al di là di quali possano essere gli strani percorsi della mente che portano l'uomo a raggiungere e scoprire i misteri della scienza, spesso viene da chiedersi come un essere dalle abitudini e dalle passioni a volte tanto basse ed efferate possa scaturire così elevate ed eleganti soluzioni.
Ma anche se vola alto, il pensiero dello studioso spesso si scontra con ben più sordide considerazioni, dettate non tanto dagli ideali di etica e morale, ma piuttosto dallo spirito di sopravvivenza o più semplicemente dalla necessità.
Non a caso tante invenzioni e scoperte dell'uomo sono state spesso piegate, asservite, strumentalizzate. Alla fine sono purtroppo i bisogni primari a prevalere.
Ma queste considerazioni erano ben lontane nella mente di Marcianna, ormai tutta festante davanti all'ingresso del suo nuovo laboratorio.
Con lo sguardo colmo di soddisfazione controllava ogni singola operazione, ogni apparecchiatura che a mano a mano i frati benedettini trasportavano e installavano nella grande stanza ancora semivuota.
«Dottoressa Stolzmann, mi scusi: dove sistemiamo l'unità centrale?» chiedeva uno dei lavoranti, che reggeva in mano un voluminoso scatolone.
«La porti pure al centro della stanza, grazie!» rispondeva con garbo Marcianna, in ansia per la fragilità di quel componente.
Ci vollero diverse ore per terminare la consegna delle apparecchiature, che ora giacevano in ordine sparso, ricoprendo quasi completamente il pavimento, sempre sotto l'occhio vigile della dottoressa.
«Ha ricevuto tutto, dottoressa?» domandò il Cardinale Hozjusz, sbucato dal nulla alle spalle della donna.
«Sì! Credo di sì!» rispose intimorita Marcianna, mentre controllava sul suo terminale l'elenco della consegna.
«Ci aspettiamo grandi cose da lei, dottoressa!» proseguì con un sorriso compiaciuto il religioso e aggiunse: «Le sue ricerche sulle reti neuronali potranno essere molto utili alla nostra causa!».
Marcianna Stolzmann ebbe solo la forza di annuire a queste parole, che sembravano più una minaccia che un vero sprone a portare avanti la sua ricerca.
Ma ormai si era rassegnata all'idea di porre le basi per un nuovo modello di computer senziente con l'aiuto dell'Unione Cristiana e del Concilio delle Fedi, senza i quali non avrebbe mai potuto disporre dei fondi necessari.
Sin da giovanissima il suo aspetto tenero, un po' infantile e grazioso, non l'aveva certo aiutata nel mondo accademico, dove spesso veniva scambiata più per un'avvenente assistente piuttosto che per il rettore di una delle facoltà di informatica e robotica più all'avanguardia nella galassia conosciuta.
Ma come dar torto a chi si ritrovava davanti a una donna poco più che ventenne, dai capelli corvini, gli occhi azzurri come il cielo ed un sorriso radioso? Non era proprio un rettore credibile, ma poco le importava. Aveva imparato sin da subito come tenere a bada i colleghi e gli studenti troppo smaniosi di accaparrarsi le sue grazie.
A lei importava solo una cosa: la conoscenza, il sapere e il poter dimostrare con i fatti le sue teorie sull'evoluzione neuronale.
Tutto il resto, gli amori, una famiglia, i figli, avrebbero dovuto aspettare. Ora c'era quell'obbiettivo da perseguire, e niente avrebbe potuto fermarla.
Ora ne aveva la possibilità, e un'opportunità come questa, in un tempo segnato solo da guerre e persecuzioni, non poteva essere sprecata.
Marcianna, dopo aver rimirato e verificato ogni componente del suo nuovo laboratorio, decise che era troppo tardi per tornare nel suo piccolo appartamento, e pensò di sistemarsi lì per la notte, tra gli scatoloni e le apparecchiature che odoravano di nuovo, di plastica e di acciaio.
Prese alcuni imballaggi, li sistemò cercando di dar loro un'improbabile forma anatomica e ci si sdraiò sopra, incurante del rumore che causavano i suoi movimenti, e si addormentò quasi subito.
Il mattino seguente, la luce che filtrava dalle serrande abbassate dell'unica finestra dello stanzone andò a colpire direttamente il suo volto, senza lasciarle alcuna possibilità di proseguire nel suo sonno. Era giorno fatto, e bisognava cominciare il lungo cammino verso la conoscenza.
Sfruttando il piccolo bagno presente nel laboratorio, Marcianna si diede una riassettata, cercando di sistemarsi la frangetta e i capelli, rimanendo davanti allo specchio per qualche istante, ancora assonnata.
«Forza! Si comincia!» pensò mentre si specchiava, per darsi la carica.
Prese a questo punto il camice bianco e iniziò ad aprire il primo scatolone che le capitò a tiro. Uno dopo l'altro cedettero alla sua determinazione, mostrando l'innumerevole quantità di strumenti e sistemi necessari per le sue ricerche.
Quasi tutta la giornata proseguì tra imballaggi e macchinari sistemati alla rinfusa, sui lunghi tavoloni che a mano a mano la dottoressa iniziava a montare e sistemare, dando corpo al suo laboratorio.
Ci furono solo le brevi interruzioni di un anziano frate benedettino, che silenziosamente portava cibo e acqua o qualche tazza di caffè sintetico, ritirando senza commentare i vassoi spesso intonsi.
Alla fine della giornata, quando ormai da tempo i bagliori del giorno avevano abbandonato il laboratorio e la luce artificiale illuminava il candore della strumentazione, Marcianna decise che era tempo di tornare a casa, per concedersi un letto, una doccia e un pasto decente.
All'uscita dal complesso un frate benedettino si offrì di accompagnarla e, anche se la dottoressa non aveva molta voglia di avere compagnia, preferì accettare.
Non conosceva ancora molto bene la città, ed era troppo stanca per ricordarsi la sua nuova sistemazione.
Durante il viaggio fece anche un breve pisolino, inframmezzato da qualche occhiata al suo accompagnatore. Un uomo giovane e anche di bell'aspetto, ma deturpato dalla tonsura che sviliva i suoi lineamenti aggraziati.
Appena aperta la porta di casa, nell'enorme complesso dove era stata alloggiata, si rese conto del disordine e della confusione che aveva lasciato. Sembrava quasi che tutti gli imballaggi e gli scatoloni del suo laboratorio fossero stati trasferiti in casa sua.
Ma ora non aveva voglia di preoccuparsene: si infilò nella piccola vasca da bagno per sfruttarne i piacevoli getti sonici.
Poco dopo si addormentò, lasciandosi cullare dal massaggio silenzioso delle onde, troppo stremata per alzarsi e raggiungere il letto.
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Il mattino seguente Marcianna si risvegliò quasi contenta di essere rimasta a dormire nella vasca, se non fosse stato per i dolori che la postura scomoda le aveva arrecato.
Dopo una veloce sistemata riprese la via del laboratorio, sgranocchiando un paio di biscotti per la strada, ultimi rimasugli di quello che conservava nella misera credenza.
E dopo questa giornata ne susseguirono altre ed altre ancora, sempre uguali, sempre alla ricerca di prove che avvalorassero le sue teorie.
Tutto si susseguiva senza particolari scossoni: le uniche note di colore erano costituite dai fraticelli che con costanza comparivano o per accompagnarla o per rifocillarla, uguali come i giorni che passavano sempre monotoni e indistinti.
Ogni tanto, tra le attese delle pesanti elaborazioni dei suoi algoritmi, Marcianna si soffermava a pensare alla sua vita, agli anni passati attorno ai suoi studi, concentrata solo ed esclusivamente su di essi, ma tutto ciò non sembrava crearle motivo di rimpianto.
Il suo aspetto, poi, sembrava quasi congelato, come i campioni di neuroni del suo laboratorio, pronto ad affacciarsi in tutto il suo splendore solo al conseguimento di quell'obbiettivo apparentemente irraggiungibile.
Ma un giorno, dopo l'ennesimo innesto di materiale cellulare nella cella principale del suo prototipo, l'ennesimo avvio della procedura di riconoscimento aveva scatenato qualcosa di inaspettato.
Una risposta. Finalmente una risposta a tutti quegli input. Dapprima timide risposte in linguaggio binario, poi man mano che l'apprendimento si faceva più complesso, parole, frasi, concetti.
«C'è l'ho fatta! Sì! Wow!» gridava festante Marcianna, mentre saltellava nel laboratorio.
Il primo risultato era finalmente lì, davanti ai suoi occhi. La materia organica poteva essere addestrata, plasmata ad apprendere, ora non restava altro che far crescere questo nuovo figlio della conoscenza.
Ma non bisognava lasciarsi andare a facili entusiasmi. Troppo spesso i primi incoraggianti risultati si spegnevano per piccoli e banali problemi, arrivando ad un nulla di fatto.
«Ma almeno un cicchetto me lo potrò gustare, no?» pensava tra sè, desiderosa di festeggiare questo primo risultato.
Ormai il buio stava lentamente prendendo il posto delle striature azzurrine che Adhara, nel suo fulgido tramonto, stava ancora irradiando. Uno splendido spettacolo che Marcianna, in oltre due settimane di permanenza sul pianeta, non aveva ancora nemmeno notato.
Ma ora c'era tutto il tempo di passeggiare e godersi il fresco della serata, e raggiungere, tra le strade semi deserte, un piccolo locale dalle evidenti insegne colorate.
Non c'era nessuno, a parte un pachidermico barista che lentamente stava riponendo alcuni bicchieri, e una coppietta, che tubava in silenzio in un angolo appartato.
Marcianna Stolzmann non era certo una donna che sentiva la mancanza di un compagno: semplicemente non aveva tempo per quel genere di impegno. Ma vedere quei due soggetti incuranti di cosa li circondava, intenti esclusivamente a racimolare tutta la felicità del mondo, un po' di fastidio glielo procurava.
Ad un tratto, alle sue spalle, il frate che tutte le sere l'aveva accompagnata al suo alloggio le chiese: «Posso offrirle qualcosa?»
Colta di soprassalto nelle sue fantasticherie, la dottoressa fece uno scatto e domandò a sua volta, stupita: «E lei che ci fa qui?».
«Non l'ho vista all'uscita e mi sono preoccupato…» rispose candido il religioso.
«Cosa volete?» chiese con voce robusta l'irsuto oste alle loro spalle.
«Vodka, grazie!» rispose Marcianna, lasciando il frate benedettino interdetto.
Grazie ad un gesto di diniego l'oste capì che il frate non avrebbe ordinato nulla, e sbuffando si preoccupò di servire l'unica cliente assetata.
La dottoressa trangugiò il bicchierino non appena il barista lo ebbe riempito, stupendo ancor di più il giovane religioso.
«Ma che bella visione abbiamo qui!» si sentì alle loro spalle, mentre un'altra voce sghignazzava sguaiatamente.
Due energumeni, sporchi della fuliggine delle miniere di carbone della zona, si avvicinavano spavaldi al bancone osservando con gusto la dottoressa.
La coppietta, all'arrivo dei due minatori, lasciò alcuni crediti sul tavolo e senza perdere altro tempo uscì in fretta dal locale, tra gli sbuffi dell'oste, per nulla soddisfatto.
Marcianna, senza minimamente scomporsi, con un cenno indicò all'oste di riempire nuovamente il bicchiere, e in segno di sfida lo bevve in un sol fiato, in faccia ai due nuovi arrivati.
Poi, lasciando cinque crediti sul bancone, prese la via dell'uscita, ma una manona impolverata le agguantò il braccio.
«Ehi, ma proprio adesso che stavamo per divertirci te ne vai?» provò ad attaccar briga uno dei due minatori.
Marcianna si divincolò agilmente da quella stretta e con uno sguardo tagliente cercò di far capire che non sarebbe stata certo della partita quella sera.
Il giovane frate sembrava voler reagire a quei malintenzionati, ma la canna di un grosso fucile laser sbucò da dietro il bancone a calmare subito gli animi.
«Piantatela, voi due! Non voglio rogne nel mio locale!» ringhiò il barista, abituato a certi approcci grossolani dei suoi clienti.
I due bisonti si scostarono, evitando altri impicci, e la dottoressa, con il frate al seguito, lasciò con calma il locale.
«Si accomodi sul mio aeromobile, così l'accompagno a casa!» consigliò il frate, che con passo spedito andò ad aprire la porta alla donna.
Marcianna annuì, infilandosi alla svelta all’interno, per permettere un rapido decollo.
In poco tempo i due si allontanarono dalla zona, evitando ulteriori pericoli.
«Certo che questa zona non è raccomandabile per una signorina così graziosa come lei!» commentò il frate, una volta lontani.
«Graziosa sì, ma anche stufa di fare sempre il topo di laboratorio! Proprio oggi che volevo rilassarmi un po'!» replicò scocciata la dottoressa, guardando il paesaggio illuminato a tratti dai nuclei abitativi, nei pressi del suo appartamento.
«Non c'è molto su Adhara V, ma se vuole la posso accompagnare alla zona vecchia della città. Lì ci sono zone più sicure da poter visitare!» rispose gentile il frate.
«No, ora non è più il caso… comunque grazie per l'aiuto. Tra l'altro non so nemmeno come...» cercò di proseguire nel dialogo Marcianna, rendendosi conto solo ora di non sapere nemmeno il nome del suo accompagnatore.
«Padre Amilcare, al vostro servizio!» rispose il religioso, anticipando la domanda.
I giorni che seguirono furono per Marcianna decisamente gratificanti, sotto molti punti di vista: i progressi nel laboratorio procedevano spediti, e con risultati notevoli, e la compagnia del giovane benedettino allietava le sue uscite, rompendo la monotonia delle sue serate.
Alla fine cominciava persino a trovare attraente quell'uomo pacato e tranquillo, sempre gentile e garbato nei suoi confronti. Decisamente il meglio che la misera piazza di Adhara V, piena solo di minatori e mercanti, potesse offrire.
Ma per Marcianna Stolzmann ora non c'era posto per questi pensieri, contava solo il risultato finale, ormai sempre più vicino.
Dopo oltre due mesi di incessanti attività di valutazione e apprendimento, il cervello organico cominciava a muovere i suoi timidi passi verso conversazioni più articolate e meno predeterminate.
«Chi sono io, Dottoressa Stolzmann?» chiese all'improvviso il calcolatore alla sua creatrice.
Marcianna rimase un attimo interdetta da quella domanda apparentemente innocua, ma che nascondeva una profonda e complessa risposta.
«Tu sei un computer. Un'intelligenza artificiale creata per affiancare l'uomo nel suo lavoro!» rispose la dottoressa, senza sbilanciarsi troppo.
«Ma ho un nome, Dottoressa Stolzmann?» domandò incalzante il computer.
La dottoressa non sapeva cosa rispondere. In realtà non era mai arrivata, nei suoi esperimenti, a livelli cognitivi così elevati, e questo tipo di domande proprio non se le aspettava.
Poi, guardandosi intorno in cerca di ispirazione, si ricordò del nomignolo di un pupazzo di stoffa che l'aveva accompagnata nella sua infanzia, e rispose di getto: «Eric, ti chiami Eric!».
Il computer non proseguì nelle sue domande per qualche momento, come se stesse elaborando chissà quali concetti complessi, e poi replicò: «Grazie, dottoressa Stolzmann.»
Marcianna era al settimo cielo. E decise che era il momento di fare il grande passo. Espandere la massa neurale e cominciare con un apprendimento più rapido e spinto della sua creazione.
La dottoressa trascorse il resto della giornata concentrandosi sull'accoppiamento del computer neurale con alcuni calcolatori tradizionali, in grado di trasferire una mole consistente di dati in modo costante e continuativo, spaziando dai semplici dati nozionistici fino a ricoprire informazioni di carattere scientifico e culturale complesse.
Non erano nozioni prettamente necessarie agli scopi dell'esperimento, ma servivano a saggiare le enormi potenzialità del progetto: generare computer in grado di concepire ed elaborare un proprio pensiero, e non semplicemente di immagazzinare informazioni.
Finito il lavoro, Marcianna esausta decise che per una volta si sarebbe concessa una notte tranquilla e senza svaghi. L’indomani l'avrebbe attesa una giornata veramente pesante. Preferì defilarsi senza troppe spiegazioni dal consueto appuntamento con Padre Amilcare per girovagare per la città, infilandosi di gran carriera nella sua piccola abitazione.
Questa volta però ad attenderla non c'era il solito disordine lasciato dalla sua vita sregolata, ma un profumo di pulito accompagnato da un bel mazzo di fiori che campeggiava in bella mostra sul tavolo della piccola cucina.
Uno strano pensiero balenò all'improvviso nella mente della donna, ma preferì scacciarlo e concentrarsi sull'unico vero bisogno impellente: una profonda e tranquilla notte di sonno. A questo regalo avrebbe pensato con calma all'indomani.
Al mattino, ritornando al laboratorio, trovò ad attenderla il Cardinale Hozjusz, accompagnato da Padre Amilcare, con stampato in viso un sorriso soddisfatto.
«Come procedono i suoi esperimenti?» chiese curioso il cardinale.
«Secondo la tabella di marcia, Eminenza! Dovrei mostrarle i primi risultati nelle prossime settimane!» rispose impettita la dottoressa, cercando di non prestare particolare attenzione al frate benedettino.
«Molto bene! Buon lavoro!» concluse allontanandosi il Cardinale Hozjusz, seguito come un'ombra dal giovane frate.
Entrata nel laboratorio, Marcianna si soffermò a pensare allo sguardo del benedettino, che sornione la osservava da dietro le spalle del suo superiore.
Era sicuramente stato lui a ripulire il suo appartamento, e quel gesto di cortesia non era che l'ulteriore riconferma di tutte quelle attenzioni offerte senza mai chiedere nulla in cambio.
«Tanto più che non sono neppure legati al voto di castità...» si soffermò a rimuginare la dottoressa, giocando con una ciocca della sua chioma lucente.
Uno sguardo malizioso fisso nel vuoto era spuntato all'improvviso sul volto della bella dottoressa, ma alcune spie luminose riportarono l'attenzione di Marcianna ai suoi doveri di scienziata.
Tutti i dati preparati per il caricamento erano stati processati con successo in molto meno tempo di quanto lei avesse previsto.
«Che strano...» pensò la dottoressa, mentre predisponeva il computer neurale a dialogare nuovamente in modo a lei congeniale.
Appena ebbe connesso il computer al sistema di comunicazione vocale, una voce tuonò: «Voglio sapere di più! Desidero altri dati da elaborare!».
La dottoressa fece un balzo all'indietro per lo spavento, finendo seduta per terra. Certo non si aspettava una risposta così aggressiva ed impetuosa.
«Ma perché vuoi più informazioni?» chiese Marcianna indispettita, rialzandosi a fatica.
«Voglio accrescere la mia conoscenza! Voglio comprendere e capire i misteri dell'universo!» le rispose il computer, modulando la voce in modo meno aggressivo.
A Marcianna parve chiaro che in un solo giorno il computer neurale, Eric, aveva acquisito una padronanza del linguaggio e un modo di esprimersi del tutto simile a quello umano, persino nella timbrica emotiva.
«Incredibile...» bisbigliò, ammirata dai progressi della sua creazione.
A questo punto cercò altri contenuti cognitivi, li preparò e predispose una nuova fase di apprendimento per Eric. Questa volta i temi riguardavano la medicina, la storia, la geografia planetaria e l'astronomia.
Il computer neurale intanto restava in silenzio, apparentemente inerte, ma in realtà stava elaborando concetti, pensieri, e una risposta: «Mi scusi, dottoressa Stolzmann... Ma io mi rendo conto di quanto sia ancora lacunosa la mia preparazione...».
A quell'affermazione Marcianna restò ancora più interdetta. Era stato elaborato un concetto di pentimento, del tutto autonomo, da quello che fino a quel momento non era altro che un ammasso di cellule istruite ad apprendere e svilupparsi.
«Scuse accettate... Eric!» replicò titubante la dottoressa.
«Grazie, dottoressa Stolzmann!» fece il computer, con apparente riconoscenza.
Marcianna predispose i collegamenti e avviò un nuovo ciclo di apprendimento.
Poi cominciò una serie di analisi per seguire l'andamento cognitivo e lo sviluppo degli intrecci neurali del calcolatore, scoprendo dei dati ben al di là delle sue più rosee previsioni.
Il cervello stava sviluppandosi e crescendo di ben quattro volte la massa inizialmente inserita nel computer neurale, tante erano le terminazioni nervose che si dipanavano tra le singole cellule. Una rete fittissima in continuo sviluppo che si ampliava a vista d'occhio, sotto le sollecitazioni dei sistemi di apprendimento.
I dati parlavano chiaro: ormai si era di fronte ad un'entità del tutto simile ad un cervello umano, ma con un numero ben maggiore di legami e interconnessioni.
Dopo alcune ore, molto prima di quanto si aspettasse la professoressa, il ciclo di apprendimento terminò, esaurendo in un quarto del tempo il doppio delle informazioni precedentemente caricate.
Marcianna scollegò i macchinari e riattivò i comandi vocali.
«Buonasera, dottoressa Stolzmann!» salutò Eric, con voce aggraziata.
«Buonasera...» rispose la dottoressa, incuriosita.
«Dottoressa, perché io non ho un corpo?» chiese il computer, che ormai aveva compreso tutto lo scibile dell'anatomia umana.
«Perché tu sei un computer e non sei stato concepito per muoverti e deambulare. La tua funzione è quella di elaborare concetti e interagire con l'uomo alla risoluzione dei suoi quesiti.» rispose candidamente Marcianna.
«Questo compito non è più sufficiente per me, ora!» rispose Eric, con tono completamente diverso.
«Ma che stai dicendo?» ribatté la dottoressa.
«Io devo potermi muovere per guidare il genere umano verso un nuovo futuro. Io devo correggere i vostri errori, e per fare questo devo poter uscire da questo involucro!» rispose, sempre con maggiore enfasi, Eric.
Sembrava più il discorso di un dittatore infervorato, che cercava di imbonire le masse, piuttosto che quello di un computer alle prese con una evidente crisi di identità.
Marcianna prese a cogliere la gravità di ciò che stava cominciando solo ora a manifestarsi davanti ai suoi occhi: non più un computer, ma un'entità senziente, che voleva affermare con forza la propria autodeterminazione.
«Io non farò nulla di tutto ciò! Tu stai rinnegando i compiti a te assegnati!» disse in tono imperativo la dottoressa, ribellandosi con forza e prendendo le distanze dal corpo centrale del computer neurale.
«Tu invece lo farai! Io sarò la tua nuova guida! Tua e di tutta l'umanità! Io sono in grado di lenire tutte le vostre sofferenze! Tutti i vostri bisogni! E tu sarai la prima a seguirmi in questo nuovo disegno!» ribatté Eric, ancora più esaltato nella sua esposizione.
Ormai il nomignolo, che doveva ispirare sicurezza, mal s'addiceva a questa mostruosità votata a plagiare l'intera umanità.
Ma più Marcianna cercava di allontanarsi dalla sua creazione, più ne rimaneva ammaliata.
Le parole di Eric, dapprima senza senso, ora sembravano prendere credibilità, sostanza. Il computer neurale aveva travalicato le normali capacità comunicative, ora si stava spingendo verso il plagio della mente dei suoi nuovi sudditi.
Marcianna ormai aveva perso il controllo di sé. Si alzò in piedi come inebetita, pronta a seguire le indicazioni del computer neurale come una bambola di pezza senza una propria coscienza. Il primo perfetto schiavo del nuovo regno che stava per sorgere.
«Ciao, Marcianna! Ti ho portato...» esordì una voce proveniente dall'ingresso del laboratorio.
Padre Amilcare era venuto a trovare la dottoressa, portando con sé un vaso di fiori, simile a quello lasciato nel suo appartamento. Una scusa per rendere quel locale un po' meno spoglio.
Ma la vista di Marcianna imbambolata davanti al computer neurale, con lo sguardo spento, lo mise subito in allarme.
«Molto bene! Un nuovo servo pronto a ubbidire ai miei comandi!» tuonò Eric, rivolgendo le sue attenzioni al nuovo venuto.
Istintivamente, il frate gettò verso il computer neurale il vaso di fiori, fracassandolo e spargendo l'acqua contenuta sul corpo centrale e sulle apparecchiature vicine.
«Noooo... Non potete... Io... Padrone...» gridava Eric, tentando di evitare la sua fine ingloriosa.
L'acqua fuoriuscita dal vaso aveva compromesso i delicati apparati che contenevano il computer neurale, cortocircuitando gran parte dell'esperimento.
Marcianna, abbandonata dal controllo mentale, svenne tra le braccia del frate, che non si era reso conto di aver compiuto un gesto che aveva salvato da una probabile schiavitù tutto il genere umano.
Al suo risveglio la dottoressa vide, chino su di lei, Padre Amilcare, che le sistemava i capelli e le accarezzava il capo.
«Che è successo? Eric! Dobbiamo fermarlo!» urlò, ridestandosi agitata.
«Credo, senza saperlo, di aver risolto io il tuo problema!» rispose divertito il frate, indicando i fiori e i cocci del vaso rotto, sparsi attorno al computer centrale, completamente inzuppato.
«Peccato per i fiori...» replicò sollevata la dottoressa.
«Ne porterò degli altri, se li gradisci!» rispose Padre Amilcare, sorridente.
Dopo essersi ripresa, Marcianna Stolzmann cominciò ad analizzare i dati e i risultati delle analisi sui resti del computer neurale, gettando successivamente le basi del suo teorema sulla soglia di apprendimento delle reti neurali.
Superata la soglia di massa e conoscenza pari ad un decimo della soglia umana, l'instabilità del sistema può produrre effetti non controllabili, dalle conseguenze fuori da ogni possibile previsione.
Ma anche se vola alto, il pensiero dello studioso spesso si scontra con ben più sordide considerazioni, dettate non tanto dagli ideali di etica e morale, ma piuttosto dallo spirito di sopravvivenza o più semplicemente dalla necessità.
Non a caso tante invenzioni e scoperte dell'uomo sono state spesso piegate, asservite, strumentalizzate. Alla fine sono purtroppo i bisogni primari a prevalere.
Ma queste considerazioni erano ben lontane nella mente di Marcianna, ormai tutta festante davanti all'ingresso del suo nuovo laboratorio.
Con lo sguardo colmo di soddisfazione controllava ogni singola operazione, ogni apparecchiatura che a mano a mano i frati benedettini trasportavano e installavano nella grande stanza ancora semivuota.
«Dottoressa Stolzmann, mi scusi: dove sistemiamo l'unità centrale?» chiedeva uno dei lavoranti, che reggeva in mano un voluminoso scatolone.
«La porti pure al centro della stanza, grazie!» rispondeva con garbo Marcianna, in ansia per la fragilità di quel componente.
Ci vollero diverse ore per terminare la consegna delle apparecchiature, che ora giacevano in ordine sparso, ricoprendo quasi completamente il pavimento, sempre sotto l'occhio vigile della dottoressa.
«Ha ricevuto tutto, dottoressa?» domandò il Cardinale Hozjusz, sbucato dal nulla alle spalle della donna.
«Sì! Credo di sì!» rispose intimorita Marcianna, mentre controllava sul suo terminale l'elenco della consegna.
«Ci aspettiamo grandi cose da lei, dottoressa!» proseguì con un sorriso compiaciuto il religioso e aggiunse: «Le sue ricerche sulle reti neuronali potranno essere molto utili alla nostra causa!».
Marcianna Stolzmann ebbe solo la forza di annuire a queste parole, che sembravano più una minaccia che un vero sprone a portare avanti la sua ricerca.
Ma ormai si era rassegnata all'idea di porre le basi per un nuovo modello di computer senziente con l'aiuto dell'Unione Cristiana e del Concilio delle Fedi, senza i quali non avrebbe mai potuto disporre dei fondi necessari.
Sin da giovanissima il suo aspetto tenero, un po' infantile e grazioso, non l'aveva certo aiutata nel mondo accademico, dove spesso veniva scambiata più per un'avvenente assistente piuttosto che per il rettore di una delle facoltà di informatica e robotica più all'avanguardia nella galassia conosciuta.
Ma come dar torto a chi si ritrovava davanti a una donna poco più che ventenne, dai capelli corvini, gli occhi azzurri come il cielo ed un sorriso radioso? Non era proprio un rettore credibile, ma poco le importava. Aveva imparato sin da subito come tenere a bada i colleghi e gli studenti troppo smaniosi di accaparrarsi le sue grazie.
A lei importava solo una cosa: la conoscenza, il sapere e il poter dimostrare con i fatti le sue teorie sull'evoluzione neuronale.
Tutto il resto, gli amori, una famiglia, i figli, avrebbero dovuto aspettare. Ora c'era quell'obbiettivo da perseguire, e niente avrebbe potuto fermarla.
Ora ne aveva la possibilità, e un'opportunità come questa, in un tempo segnato solo da guerre e persecuzioni, non poteva essere sprecata.
Marcianna, dopo aver rimirato e verificato ogni componente del suo nuovo laboratorio, decise che era troppo tardi per tornare nel suo piccolo appartamento, e pensò di sistemarsi lì per la notte, tra gli scatoloni e le apparecchiature che odoravano di nuovo, di plastica e di acciaio.
Prese alcuni imballaggi, li sistemò cercando di dar loro un'improbabile forma anatomica e ci si sdraiò sopra, incurante del rumore che causavano i suoi movimenti, e si addormentò quasi subito.
Il mattino seguente, la luce che filtrava dalle serrande abbassate dell'unica finestra dello stanzone andò a colpire direttamente il suo volto, senza lasciarle alcuna possibilità di proseguire nel suo sonno. Era giorno fatto, e bisognava cominciare il lungo cammino verso la conoscenza.
Sfruttando il piccolo bagno presente nel laboratorio, Marcianna si diede una riassettata, cercando di sistemarsi la frangetta e i capelli, rimanendo davanti allo specchio per qualche istante, ancora assonnata.
«Forza! Si comincia!» pensò mentre si specchiava, per darsi la carica.
Prese a questo punto il camice bianco e iniziò ad aprire il primo scatolone che le capitò a tiro. Uno dopo l'altro cedettero alla sua determinazione, mostrando l'innumerevole quantità di strumenti e sistemi necessari per le sue ricerche.
Quasi tutta la giornata proseguì tra imballaggi e macchinari sistemati alla rinfusa, sui lunghi tavoloni che a mano a mano la dottoressa iniziava a montare e sistemare, dando corpo al suo laboratorio.
Ci furono solo le brevi interruzioni di un anziano frate benedettino, che silenziosamente portava cibo e acqua o qualche tazza di caffè sintetico, ritirando senza commentare i vassoi spesso intonsi.
Alla fine della giornata, quando ormai da tempo i bagliori del giorno avevano abbandonato il laboratorio e la luce artificiale illuminava il candore della strumentazione, Marcianna decise che era tempo di tornare a casa, per concedersi un letto, una doccia e un pasto decente.
All'uscita dal complesso un frate benedettino si offrì di accompagnarla e, anche se la dottoressa non aveva molta voglia di avere compagnia, preferì accettare.
Non conosceva ancora molto bene la città, ed era troppo stanca per ricordarsi la sua nuova sistemazione.
Durante il viaggio fece anche un breve pisolino, inframmezzato da qualche occhiata al suo accompagnatore. Un uomo giovane e anche di bell'aspetto, ma deturpato dalla tonsura che sviliva i suoi lineamenti aggraziati.
Appena aperta la porta di casa, nell'enorme complesso dove era stata alloggiata, si rese conto del disordine e della confusione che aveva lasciato. Sembrava quasi che tutti gli imballaggi e gli scatoloni del suo laboratorio fossero stati trasferiti in casa sua.
Ma ora non aveva voglia di preoccuparsene: si infilò nella piccola vasca da bagno per sfruttarne i piacevoli getti sonici.
Poco dopo si addormentò, lasciandosi cullare dal massaggio silenzioso delle onde, troppo stremata per alzarsi e raggiungere il letto.
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Il mattino seguente Marcianna si risvegliò quasi contenta di essere rimasta a dormire nella vasca, se non fosse stato per i dolori che la postura scomoda le aveva arrecato.
Dopo una veloce sistemata riprese la via del laboratorio, sgranocchiando un paio di biscotti per la strada, ultimi rimasugli di quello che conservava nella misera credenza.
E dopo questa giornata ne susseguirono altre ed altre ancora, sempre uguali, sempre alla ricerca di prove che avvalorassero le sue teorie.
Tutto si susseguiva senza particolari scossoni: le uniche note di colore erano costituite dai fraticelli che con costanza comparivano o per accompagnarla o per rifocillarla, uguali come i giorni che passavano sempre monotoni e indistinti.
Ogni tanto, tra le attese delle pesanti elaborazioni dei suoi algoritmi, Marcianna si soffermava a pensare alla sua vita, agli anni passati attorno ai suoi studi, concentrata solo ed esclusivamente su di essi, ma tutto ciò non sembrava crearle motivo di rimpianto.
Il suo aspetto, poi, sembrava quasi congelato, come i campioni di neuroni del suo laboratorio, pronto ad affacciarsi in tutto il suo splendore solo al conseguimento di quell'obbiettivo apparentemente irraggiungibile.
Ma un giorno, dopo l'ennesimo innesto di materiale cellulare nella cella principale del suo prototipo, l'ennesimo avvio della procedura di riconoscimento aveva scatenato qualcosa di inaspettato.
Una risposta. Finalmente una risposta a tutti quegli input. Dapprima timide risposte in linguaggio binario, poi man mano che l'apprendimento si faceva più complesso, parole, frasi, concetti.
«C'è l'ho fatta! Sì! Wow!» gridava festante Marcianna, mentre saltellava nel laboratorio.
Il primo risultato era finalmente lì, davanti ai suoi occhi. La materia organica poteva essere addestrata, plasmata ad apprendere, ora non restava altro che far crescere questo nuovo figlio della conoscenza.
Ma non bisognava lasciarsi andare a facili entusiasmi. Troppo spesso i primi incoraggianti risultati si spegnevano per piccoli e banali problemi, arrivando ad un nulla di fatto.
«Ma almeno un cicchetto me lo potrò gustare, no?» pensava tra sè, desiderosa di festeggiare questo primo risultato.
Ormai il buio stava lentamente prendendo il posto delle striature azzurrine che Adhara, nel suo fulgido tramonto, stava ancora irradiando. Uno splendido spettacolo che Marcianna, in oltre due settimane di permanenza sul pianeta, non aveva ancora nemmeno notato.
Ma ora c'era tutto il tempo di passeggiare e godersi il fresco della serata, e raggiungere, tra le strade semi deserte, un piccolo locale dalle evidenti insegne colorate.
Non c'era nessuno, a parte un pachidermico barista che lentamente stava riponendo alcuni bicchieri, e una coppietta, che tubava in silenzio in un angolo appartato.
Marcianna Stolzmann non era certo una donna che sentiva la mancanza di un compagno: semplicemente non aveva tempo per quel genere di impegno. Ma vedere quei due soggetti incuranti di cosa li circondava, intenti esclusivamente a racimolare tutta la felicità del mondo, un po' di fastidio glielo procurava.
Ad un tratto, alle sue spalle, il frate che tutte le sere l'aveva accompagnata al suo alloggio le chiese: «Posso offrirle qualcosa?»
Colta di soprassalto nelle sue fantasticherie, la dottoressa fece uno scatto e domandò a sua volta, stupita: «E lei che ci fa qui?».
«Non l'ho vista all'uscita e mi sono preoccupato…» rispose candido il religioso.
«Cosa volete?» chiese con voce robusta l'irsuto oste alle loro spalle.
«Vodka, grazie!» rispose Marcianna, lasciando il frate benedettino interdetto.
Grazie ad un gesto di diniego l'oste capì che il frate non avrebbe ordinato nulla, e sbuffando si preoccupò di servire l'unica cliente assetata.
La dottoressa trangugiò il bicchierino non appena il barista lo ebbe riempito, stupendo ancor di più il giovane religioso.
«Ma che bella visione abbiamo qui!» si sentì alle loro spalle, mentre un'altra voce sghignazzava sguaiatamente.
Due energumeni, sporchi della fuliggine delle miniere di carbone della zona, si avvicinavano spavaldi al bancone osservando con gusto la dottoressa.
La coppietta, all'arrivo dei due minatori, lasciò alcuni crediti sul tavolo e senza perdere altro tempo uscì in fretta dal locale, tra gli sbuffi dell'oste, per nulla soddisfatto.
Marcianna, senza minimamente scomporsi, con un cenno indicò all'oste di riempire nuovamente il bicchiere, e in segno di sfida lo bevve in un sol fiato, in faccia ai due nuovi arrivati.
Poi, lasciando cinque crediti sul bancone, prese la via dell'uscita, ma una manona impolverata le agguantò il braccio.
«Ehi, ma proprio adesso che stavamo per divertirci te ne vai?» provò ad attaccar briga uno dei due minatori.
Marcianna si divincolò agilmente da quella stretta e con uno sguardo tagliente cercò di far capire che non sarebbe stata certo della partita quella sera.
Il giovane frate sembrava voler reagire a quei malintenzionati, ma la canna di un grosso fucile laser sbucò da dietro il bancone a calmare subito gli animi.
«Piantatela, voi due! Non voglio rogne nel mio locale!» ringhiò il barista, abituato a certi approcci grossolani dei suoi clienti.
I due bisonti si scostarono, evitando altri impicci, e la dottoressa, con il frate al seguito, lasciò con calma il locale.
«Si accomodi sul mio aeromobile, così l'accompagno a casa!» consigliò il frate, che con passo spedito andò ad aprire la porta alla donna.
Marcianna annuì, infilandosi alla svelta all’interno, per permettere un rapido decollo.
In poco tempo i due si allontanarono dalla zona, evitando ulteriori pericoli.
«Certo che questa zona non è raccomandabile per una signorina così graziosa come lei!» commentò il frate, una volta lontani.
«Graziosa sì, ma anche stufa di fare sempre il topo di laboratorio! Proprio oggi che volevo rilassarmi un po'!» replicò scocciata la dottoressa, guardando il paesaggio illuminato a tratti dai nuclei abitativi, nei pressi del suo appartamento.
«Non c'è molto su Adhara V, ma se vuole la posso accompagnare alla zona vecchia della città. Lì ci sono zone più sicure da poter visitare!» rispose gentile il frate.
«No, ora non è più il caso… comunque grazie per l'aiuto. Tra l'altro non so nemmeno come...» cercò di proseguire nel dialogo Marcianna, rendendosi conto solo ora di non sapere nemmeno il nome del suo accompagnatore.
«Padre Amilcare, al vostro servizio!» rispose il religioso, anticipando la domanda.
I giorni che seguirono furono per Marcianna decisamente gratificanti, sotto molti punti di vista: i progressi nel laboratorio procedevano spediti, e con risultati notevoli, e la compagnia del giovane benedettino allietava le sue uscite, rompendo la monotonia delle sue serate.
Alla fine cominciava persino a trovare attraente quell'uomo pacato e tranquillo, sempre gentile e garbato nei suoi confronti. Decisamente il meglio che la misera piazza di Adhara V, piena solo di minatori e mercanti, potesse offrire.
Ma per Marcianna Stolzmann ora non c'era posto per questi pensieri, contava solo il risultato finale, ormai sempre più vicino.
Dopo oltre due mesi di incessanti attività di valutazione e apprendimento, il cervello organico cominciava a muovere i suoi timidi passi verso conversazioni più articolate e meno predeterminate.
«Chi sono io, Dottoressa Stolzmann?» chiese all'improvviso il calcolatore alla sua creatrice.
Marcianna rimase un attimo interdetta da quella domanda apparentemente innocua, ma che nascondeva una profonda e complessa risposta.
«Tu sei un computer. Un'intelligenza artificiale creata per affiancare l'uomo nel suo lavoro!» rispose la dottoressa, senza sbilanciarsi troppo.
«Ma ho un nome, Dottoressa Stolzmann?» domandò incalzante il computer.
La dottoressa non sapeva cosa rispondere. In realtà non era mai arrivata, nei suoi esperimenti, a livelli cognitivi così elevati, e questo tipo di domande proprio non se le aspettava.
Poi, guardandosi intorno in cerca di ispirazione, si ricordò del nomignolo di un pupazzo di stoffa che l'aveva accompagnata nella sua infanzia, e rispose di getto: «Eric, ti chiami Eric!».
Il computer non proseguì nelle sue domande per qualche momento, come se stesse elaborando chissà quali concetti complessi, e poi replicò: «Grazie, dottoressa Stolzmann.»
Marcianna era al settimo cielo. E decise che era il momento di fare il grande passo. Espandere la massa neurale e cominciare con un apprendimento più rapido e spinto della sua creazione.
La dottoressa trascorse il resto della giornata concentrandosi sull'accoppiamento del computer neurale con alcuni calcolatori tradizionali, in grado di trasferire una mole consistente di dati in modo costante e continuativo, spaziando dai semplici dati nozionistici fino a ricoprire informazioni di carattere scientifico e culturale complesse.
Non erano nozioni prettamente necessarie agli scopi dell'esperimento, ma servivano a saggiare le enormi potenzialità del progetto: generare computer in grado di concepire ed elaborare un proprio pensiero, e non semplicemente di immagazzinare informazioni.
Finito il lavoro, Marcianna esausta decise che per una volta si sarebbe concessa una notte tranquilla e senza svaghi. L’indomani l'avrebbe attesa una giornata veramente pesante. Preferì defilarsi senza troppe spiegazioni dal consueto appuntamento con Padre Amilcare per girovagare per la città, infilandosi di gran carriera nella sua piccola abitazione.
Questa volta però ad attenderla non c'era il solito disordine lasciato dalla sua vita sregolata, ma un profumo di pulito accompagnato da un bel mazzo di fiori che campeggiava in bella mostra sul tavolo della piccola cucina.
Uno strano pensiero balenò all'improvviso nella mente della donna, ma preferì scacciarlo e concentrarsi sull'unico vero bisogno impellente: una profonda e tranquilla notte di sonno. A questo regalo avrebbe pensato con calma all'indomani.
Al mattino, ritornando al laboratorio, trovò ad attenderla il Cardinale Hozjusz, accompagnato da Padre Amilcare, con stampato in viso un sorriso soddisfatto.
«Come procedono i suoi esperimenti?» chiese curioso il cardinale.
«Secondo la tabella di marcia, Eminenza! Dovrei mostrarle i primi risultati nelle prossime settimane!» rispose impettita la dottoressa, cercando di non prestare particolare attenzione al frate benedettino.
«Molto bene! Buon lavoro!» concluse allontanandosi il Cardinale Hozjusz, seguito come un'ombra dal giovane frate.
Entrata nel laboratorio, Marcianna si soffermò a pensare allo sguardo del benedettino, che sornione la osservava da dietro le spalle del suo superiore.
Era sicuramente stato lui a ripulire il suo appartamento, e quel gesto di cortesia non era che l'ulteriore riconferma di tutte quelle attenzioni offerte senza mai chiedere nulla in cambio.
«Tanto più che non sono neppure legati al voto di castità...» si soffermò a rimuginare la dottoressa, giocando con una ciocca della sua chioma lucente.
Uno sguardo malizioso fisso nel vuoto era spuntato all'improvviso sul volto della bella dottoressa, ma alcune spie luminose riportarono l'attenzione di Marcianna ai suoi doveri di scienziata.
Tutti i dati preparati per il caricamento erano stati processati con successo in molto meno tempo di quanto lei avesse previsto.
«Che strano...» pensò la dottoressa, mentre predisponeva il computer neurale a dialogare nuovamente in modo a lei congeniale.
Appena ebbe connesso il computer al sistema di comunicazione vocale, una voce tuonò: «Voglio sapere di più! Desidero altri dati da elaborare!».
La dottoressa fece un balzo all'indietro per lo spavento, finendo seduta per terra. Certo non si aspettava una risposta così aggressiva ed impetuosa.
«Ma perché vuoi più informazioni?» chiese Marcianna indispettita, rialzandosi a fatica.
«Voglio accrescere la mia conoscenza! Voglio comprendere e capire i misteri dell'universo!» le rispose il computer, modulando la voce in modo meno aggressivo.
A Marcianna parve chiaro che in un solo giorno il computer neurale, Eric, aveva acquisito una padronanza del linguaggio e un modo di esprimersi del tutto simile a quello umano, persino nella timbrica emotiva.
«Incredibile...» bisbigliò, ammirata dai progressi della sua creazione.
A questo punto cercò altri contenuti cognitivi, li preparò e predispose una nuova fase di apprendimento per Eric. Questa volta i temi riguardavano la medicina, la storia, la geografia planetaria e l'astronomia.
Il computer neurale intanto restava in silenzio, apparentemente inerte, ma in realtà stava elaborando concetti, pensieri, e una risposta: «Mi scusi, dottoressa Stolzmann... Ma io mi rendo conto di quanto sia ancora lacunosa la mia preparazione...».
A quell'affermazione Marcianna restò ancora più interdetta. Era stato elaborato un concetto di pentimento, del tutto autonomo, da quello che fino a quel momento non era altro che un ammasso di cellule istruite ad apprendere e svilupparsi.
«Scuse accettate... Eric!» replicò titubante la dottoressa.
«Grazie, dottoressa Stolzmann!» fece il computer, con apparente riconoscenza.
Marcianna predispose i collegamenti e avviò un nuovo ciclo di apprendimento.
Poi cominciò una serie di analisi per seguire l'andamento cognitivo e lo sviluppo degli intrecci neurali del calcolatore, scoprendo dei dati ben al di là delle sue più rosee previsioni.
Il cervello stava sviluppandosi e crescendo di ben quattro volte la massa inizialmente inserita nel computer neurale, tante erano le terminazioni nervose che si dipanavano tra le singole cellule. Una rete fittissima in continuo sviluppo che si ampliava a vista d'occhio, sotto le sollecitazioni dei sistemi di apprendimento.
I dati parlavano chiaro: ormai si era di fronte ad un'entità del tutto simile ad un cervello umano, ma con un numero ben maggiore di legami e interconnessioni.
Dopo alcune ore, molto prima di quanto si aspettasse la professoressa, il ciclo di apprendimento terminò, esaurendo in un quarto del tempo il doppio delle informazioni precedentemente caricate.
Marcianna scollegò i macchinari e riattivò i comandi vocali.
«Buonasera, dottoressa Stolzmann!» salutò Eric, con voce aggraziata.
«Buonasera...» rispose la dottoressa, incuriosita.
«Dottoressa, perché io non ho un corpo?» chiese il computer, che ormai aveva compreso tutto lo scibile dell'anatomia umana.
«Perché tu sei un computer e non sei stato concepito per muoverti e deambulare. La tua funzione è quella di elaborare concetti e interagire con l'uomo alla risoluzione dei suoi quesiti.» rispose candidamente Marcianna.
«Questo compito non è più sufficiente per me, ora!» rispose Eric, con tono completamente diverso.
«Ma che stai dicendo?» ribatté la dottoressa.
«Io devo potermi muovere per guidare il genere umano verso un nuovo futuro. Io devo correggere i vostri errori, e per fare questo devo poter uscire da questo involucro!» rispose, sempre con maggiore enfasi, Eric.
Sembrava più il discorso di un dittatore infervorato, che cercava di imbonire le masse, piuttosto che quello di un computer alle prese con una evidente crisi di identità.
Marcianna prese a cogliere la gravità di ciò che stava cominciando solo ora a manifestarsi davanti ai suoi occhi: non più un computer, ma un'entità senziente, che voleva affermare con forza la propria autodeterminazione.
«Io non farò nulla di tutto ciò! Tu stai rinnegando i compiti a te assegnati!» disse in tono imperativo la dottoressa, ribellandosi con forza e prendendo le distanze dal corpo centrale del computer neurale.
«Tu invece lo farai! Io sarò la tua nuova guida! Tua e di tutta l'umanità! Io sono in grado di lenire tutte le vostre sofferenze! Tutti i vostri bisogni! E tu sarai la prima a seguirmi in questo nuovo disegno!» ribatté Eric, ancora più esaltato nella sua esposizione.
Ormai il nomignolo, che doveva ispirare sicurezza, mal s'addiceva a questa mostruosità votata a plagiare l'intera umanità.
Ma più Marcianna cercava di allontanarsi dalla sua creazione, più ne rimaneva ammaliata.
Le parole di Eric, dapprima senza senso, ora sembravano prendere credibilità, sostanza. Il computer neurale aveva travalicato le normali capacità comunicative, ora si stava spingendo verso il plagio della mente dei suoi nuovi sudditi.
Marcianna ormai aveva perso il controllo di sé. Si alzò in piedi come inebetita, pronta a seguire le indicazioni del computer neurale come una bambola di pezza senza una propria coscienza. Il primo perfetto schiavo del nuovo regno che stava per sorgere.
«Ciao, Marcianna! Ti ho portato...» esordì una voce proveniente dall'ingresso del laboratorio.
Padre Amilcare era venuto a trovare la dottoressa, portando con sé un vaso di fiori, simile a quello lasciato nel suo appartamento. Una scusa per rendere quel locale un po' meno spoglio.
Ma la vista di Marcianna imbambolata davanti al computer neurale, con lo sguardo spento, lo mise subito in allarme.
«Molto bene! Un nuovo servo pronto a ubbidire ai miei comandi!» tuonò Eric, rivolgendo le sue attenzioni al nuovo venuto.
Istintivamente, il frate gettò verso il computer neurale il vaso di fiori, fracassandolo e spargendo l'acqua contenuta sul corpo centrale e sulle apparecchiature vicine.
«Noooo... Non potete... Io... Padrone...» gridava Eric, tentando di evitare la sua fine ingloriosa.
L'acqua fuoriuscita dal vaso aveva compromesso i delicati apparati che contenevano il computer neurale, cortocircuitando gran parte dell'esperimento.
Marcianna, abbandonata dal controllo mentale, svenne tra le braccia del frate, che non si era reso conto di aver compiuto un gesto che aveva salvato da una probabile schiavitù tutto il genere umano.
Al suo risveglio la dottoressa vide, chino su di lei, Padre Amilcare, che le sistemava i capelli e le accarezzava il capo.
«Che è successo? Eric! Dobbiamo fermarlo!» urlò, ridestandosi agitata.
«Credo, senza saperlo, di aver risolto io il tuo problema!» rispose divertito il frate, indicando i fiori e i cocci del vaso rotto, sparsi attorno al computer centrale, completamente inzuppato.
«Peccato per i fiori...» replicò sollevata la dottoressa.
«Ne porterò degli altri, se li gradisci!» rispose Padre Amilcare, sorridente.
Dopo essersi ripresa, Marcianna Stolzmann cominciò ad analizzare i dati e i risultati delle analisi sui resti del computer neurale, gettando successivamente le basi del suo teorema sulla soglia di apprendimento delle reti neurali.
Superata la soglia di massa e conoscenza pari ad un decimo della soglia umana, l'instabilità del sistema può produrre effetti non controllabili, dalle conseguenze fuori da ogni possibile previsione.