Il migliore amico
Quel giorno volgeva al termine, una giornata di sole di fine estate che avvolge ancora nella sua calura e che speri si ripeta l’indomani. Lo stereo della macchina risuonò all’improvviso di una canzone in voga e mio nipote si allungò per alzare il volume.
«Bella questa!» esclamò felice.
«Sì?» feci io scettico. «Bella? Non la conosco.»
«Ma nonno!» esclamò lui come se avessi appena proferito un’eresia. «Come fai a non conoscerla? Risuona in ogni bar, in ogni discoteca, in ogni programma televisivo!»
Io sorrisi e svoltai a destra, immettendomi sulla superstrada.
«È così grave?» domandai.
Tom si girò a guardarmi come se fossi un marziano e in lui rividi me stesso, gli stessi occhi, la medesima espressione. L’identica innocenza quando avevo la sua età. Anche non sapendolo, chiunque avrebbe indovinato il grado di parentela.
«Sì, insomma... chi è che canta?» domandai divertito.
«Ma è Donna Summer, nonno! La regina della disco!» rispose lui sgranando gli occhioni e indicando lo stereo.
«Ah, Donna Summer.» ripetei pensieroso. «Mi sa che l’ho già sentita nominare.»
Lui, uno scricciolo di dodici anni, incrociò le braccia sul petto e scosse la testa.
«Certo che l’hai sentita. La conosce pure Betty.»
E con queste due semplici frasi mi liquidò come un matusa.
Betty era sua sorella maggiore, un’adolescente moderna tutta rock che impazziva per i Deep Purple e Jimi Hendrix, musica che io non sono mai riuscito ad apprezzare. Ma, a detta di Tom, se persino Betty conosceva questa Donna Summer, significava solo che ero un matusa rimbambito.
«Bene.» risposi accettando la sfida insita. «Visto che questa mia lacuna è terribilmente grave, allora ti domando se conosci Duke.»
Tom rifletté un attimo, quindi scosse la testa ricciuta.
«Giustappunto.» commentai concentrandomi sulla guida.
«E chi è questo Duke? Forse intendi Duke Ellington?»
«No, intendo solo Duke.»
Lui si agitò sul sedile, indispettito ed io sorrisi.
«Bene. Questo significa che non lo conosci.» interpretai con tono pacato.
«No.» ammise a denti stretti.
«Allora, se permetti, questo vecchio ti racconterà una storia fintanto che arriviamo a casa.»
«Chi è questo Duke?» incalzò incuriosito. «Un mago? Un extraterrestre? Un supereroe! È un supereroe, vero, nonno?»
Sorrisi divertito dinanzi alla sua faccia e allungai la mano per abbassare il volume dello stereo. In effetti aveva quasi indovinato: Duke era un eroe, ma non come immaginava lui.
La superstrada era un po’ ingorgata e prima di giungere a casa di mia figlia avrei avuto tutto il tempo di raccontare a Tom la mia storia.
«Duke non era nulla di tutto ciò. Era un cane. Era il mio miglior amico, il più fidato e fedele.»
«Un cane?» ripeté con tono che denunciava la delusione.
«Già. Un cane. Un bellissimo pastore tedesco.»
«Ed era tuo?»
«In un certo senso.»
Tom mi guardò incuriosito ed io spiegai:
«Era un membro dei marines.»
«Un marine?!» esclamò sgranando gli occhi.
Io annuii, certo di aver accalappiato la sua attenzione e lui incalzò:
«Ed era tuo?»
«Non proprio, te l’ho detto. L’esercito me lo affidò affinché ne facessi un vero marine.»
Tom si allungò e spense lo stereo, quindi mi guardò e chiese:
«Nonno, questo vuol dire che tu eri nei marines?»
«Già.»
«E perché io non lo so?» borbottò con aria indignata.
«Forse perché eri troppo piccolo e tua madre non ha voluto raccontarti storie tristi.»
«Storie tristi?»
In quel momento mi resi conto che mi ero addentrato su un terreno pericoloso e mi schiarii la gola prima di rispondere:
«Diciamo che le storie di guerra non sono mai belle.»
«Quale guerra? Il Vietnam?»
«No, la Seconda Guerra Mondiale.» risposi con un groppo in gola.
Mio nipote aggrottò le sopracciglia, senza staccarmi gli occhi di dosso e alla fine spiegai:
«Tuo nonno è stato in guerra.»
Lo vidi aprire la bocca e richiuderla di scatto e subito dopo domandò con un misto di eccitazione e paura:
«Hai ucciso degli uomini?»
Feci una smorfia e risposi con tono fermo:
«Non è questo il punto. Il punto è che stiamo parlando di Duke.»
«Sì, ma cosa c’entra un cane con la guerra?»
«C’entra, c’entra.» risposi mesto.
«Allora tu eri un marine?»
Annuii appena e mi resi conto che in quell’istante mio nipote non mi vedeva più come il nonno matusa e un po’ scontroso e rigido, bensì come un essere nuovo, quasi un alieno.
Non mi è mai piaciuto raccontare della mia esperienza in guerra, ma volevo condividere con Tom l’amore più grande che avevo vissuto nella mia vita. E così iniziai, sotto i suoi occhi rapiti che tanto ricordavano i miei.
Il Pacifico era stato un teatro di guerra bruttissimo; forse più brutto dell’Europa, sicuramente più orrendo dell’Africa. Mentre nel continente nero si combatteva l’ultima guerra di “cavalleria”, nel senso che entrambi i contendenti si stimavano e si rispettavano nonostante si temessero, in Europa i contendenti massacravano milioni di civili indifesi. Noi, nel Pacifico, dovevamo combattere contro i giapponesi. Solo chi ci ha combattuto contro può capire di che stoffa siano.
Avevo poco più di venticinque anni quando mi arruolai per servire il mio paese: mi spedirono nei marines, unità cinofila.
All’inizio non avevo ben chiaro il senso di questa unità, ma quando mi assegnarono Duke fu come accendere una lampadina in un capannone buio. In genere i cani addestrati erano dobermann, ma c’erano alcune eccezioni, tra cui Duke, un pastore tedesco di due anni, giovane e scattante, giocherellone e affettuoso. I proprietari avevano aderito alla richiesta dello Stato di arruolare i cani per farne dei veri e propri soldati, con la promessa che li avrebbe restituiti al termine della guerra. Un po’ come il soldato che torna in famiglia.
Così, insieme agli uomini del mio reparto, iniziai ad addestrare Duke su come scoprire una mina, su come fiutare la polvere da sparo, su come imparare a paracadutarsi e via dicendo. Ogni mio commilitone aveva un cane e subito tra noi e le bestiole si instaurò un rapporto di amicizia.
Per alcune settimane ci dedicammo all’addestramento dei cani e la sera, quando andavamo in licenza, li portavamo con noi. I gestori dei bar avevano imparato a conoscerli e non chiedevano più di lasciarli fuori del locale.
Duke era bravissimo e imparava in fretta. Imparava a diventare un soldato come altri cinquecento suoi simili. Non avvertiva mai la fatica: per lui era sempre tutto un gioco. Quando indossavo le imbottiture per aizzarlo ad attaccarmi, lui all’inizio chinava la testa da un lato, forse domandandosi perché mai avrebbe dovuto assalirmi. Poi capiva e allora mi si avventava contro con i suoi micidiali canini bene in mostra. Quando azzannava un braccio o una gamba non mollava mai la presa ed io ringraziavo le imbottiture che mi salvavano da una simile furia.
Un po’ più difficile fu insegnargli a saltare in un fosso. All’inizio le buche non erano altissime e lui non aveva problemi a saltarci dentro. Ma poi, quando passavamo a quelle più alte, si tirava indietro timoroso. Allora gli mostravo come fare: salire le scale, prendere un bel respiro e lanciarsi nel vuoto. Solo quando feci finta di essermi fatto male, trovò il coraggio di lanciarsi. Fu una conquista.
La prima volta che feci esplodere una granata per abituarlo ai rumori forti, Duke corse a rifugiarsi sotto una sedia, con le orecchie abbassate e gli occhi spaesati. Tremava dalla paura ed io rimasi seduto accanto a lui accarezzandolo per farlo sentire al sicuro. Ci volle un po’ di tempo per abituarlo alle deflagrazioni e alle armi in generale e lo stesso dicasi per gli altri cani. Alla fine, però, i nostri amici a quattro zampe ci ricompensarono dimostrandoci un coraggio sovrannaturale.
Dovevano imparare bene il mestiere del soldato se volevano tornare sani e salvi, perché i compiti più rischiosi sarebbero toccati a loro. Ed io non volevo che a Duke capitasse qualcosa. Così dedicavo l’intera giornata a giocare con lui, in realtà a insegnargli a sopravvivere.
Il legame che si instaurò tra me e Duke fu di totale e indissolubile amicizia e reciproca fiducia. Ero giunto a dormire con lui, consapevole che solo la sua vicinanza mi avrebbe dato la forza di andare in guerra e di compiere il mio dovere. E lo stesso dicasi per i miei commilitoni. Ogni ragazzo era profondamente legato al suo cane. Penso che avremmo potuto uccidere se qualcuno avesse fatto loro del male.
Poi arrivò il giorno.
Ci imbarcarono per andare a espugnare l’isola di Guam.
Sapevo, dai racconti fatti dagli altri marines, che i giapponesi non si sarebbero mai arresi, che avrebbero preferito la morte alla consegna dell’isola o delle loro stesse vite. Insomma, ci preparavamo a dover combattere centimetro per centimetro.
Duke era con me, sempre. Lui ed io eravamo una sola entità, vivevamo in simbiosi. Non chiedeva mai nulla, dava solo. Ed io lo amavo come un fratello.
Era il 21 luglio del 1944 quando la prima ondata di mezzi da sbarco approdò sull’isola. Dopo pochi minuti la bandiera americana era già piantata sulla spiaggia. Non lo sapevamo, ma era solo l’inizio di una battaglia che si sarebbe protratta fino all’8 agosto, con un massacro di uomini. Solo da parte giapponese ne morirono circa ventimila.
Io e Duke sbarcammo e subito capimmo che non avremmo avuto vita facile. A dispetto della testa di ponte, i nipponici ci sparavano addosso senza che noi riuscissimo a capire da che parte giungessero le mitragliate. Ero terrorizzato. Per un po’ rimasi impietrito dal terrore, inchiodato sulla spiaggia e Duke al mio fianco. Se non fosse stato perché a un certo punto realizzai che il mio amico poteva essere colpito, probabilmente ci avrebbero falciati lì. Invece mi feci coraggio e preso Duke per il collare, lo trascinai al riparo. Lì me lo strinsi al petto e piansi, mentre vedevo gli uomini cadere come mosche.
Il rumore, i boati, gli incendi erano all’ordine del giorno. Le grida dei soldati erano terrificanti, vuoi che fossero di dolore, vuoi che fossero di ordini impartiti e solo grazie alla vicinanza di Duke trovai il coraggio di andare avanti.
Se c’era da attraversare un pezzo di foresta, i cani erano i primi ad andare avanti per fiutare mine antiuomo e anticarro. Ogni tanto vedevi questi animali che si bloccavano e si mettevano ad abbaiare e capivi che avevano scoperto una mina. Allora intervenivano gli artificieri e solo dopo gli uomini proseguivano.
Se capitava un guasto alla radio, il cane era usato come staffetta e nell’imbracatura gli venivano messi i messaggi da consegnare al quartier generale. Se c’era da trasportare un ferito, i cani trainavano la barella.
Erano sempre loro a fiutare la presenza dei giapponesi: in quelle occasioni mostravano il loro lato aggressivo, spaventando a morte il malcapitato.
Ci sono stati giorni in cui il cibo scarseggiava. Quel poco che avevo lo preparavo per Duke, porgendoglielo all’interno dell’elmetto. Poi, quando aveva finito, riempivo l’elmetto di acqua affinché si dissetasse e dopo me lo rimettevo in testa. Quanto a me, mi arrangiavo con quello che offriva la foresta. Preferivo digiunare io pur di far stare bene Duke.
Un paio di cani morirono sotto i miei occhi durante un assalto a una casamatta. Non potrò mai dimenticare il pianto disperato dei miei commilitoni. E anch’io piansi, non mi vergogno ad ammetterlo.
Duke era l’unico vero amico in cui potevo confidare, l’unico che avrebbe sacrificato la vita per salvarmi e il solo che non avrebbe mai chiesto nulla in cambio, ma solo affetto. Lui era una parte di me. Condividevamo tutto, dalla paura alla gioia, dalla tristezza alla speranza.
Quando scrivevo alla mia fidanzata, le raccontavo sempre di Duke e di quante vite salvava ogni giorno, compresa la mia. Se non fosse stato perché un giorno mi saltò addosso all’improvviso, mentre camminavo nella foresta, sarei esploso sulla mina nascosta lungo il mio cammino.
Alla fine, tuttavia, conquistammo l’isola, sebbene troppi pagarono con la vita quella vittoria. Fu un’esperienza che mi segnò nel profondo.
Quando la guerra terminò, tornai in America con Duke. Insieme eravamo sopravvissuti all’inferno ed era sufficiente questo a straziarmi il cuore al pensiero che avrei dovuto restituirlo ai legittimi proprietari. Certo, per un periodo saremmo ancora rimasti insieme perché avrei dovuto riaddestrarlo alla vita normale e dentro di me sperai che Duke superasse l’esame: in caso contrario avrei dovuto sopprimerlo. Lo Stato non ammetteva che i cani stati in guerra fossero reintegrati senza una adeguata educazione.
Nel frattempo, con tutti gli onori e alla presenza delle più alte cariche, Duke e altri cani, avvolti in un mantello con la scritta “U.S. Marines”, furono insigniti della croce d’argento a ricordo del loro coraggio e delle tante vite salvate. Fu commovente ed io ero fiero e orgoglioso di aver avuto un camerata simile.
Duke si dimostrò bravissimo anche nell’addestramento che lo proiettava di nuovo alla vita civile. Seppi che solo quattro su cinquecento cani furono abbattuti. Il dobermann di un mio amico fu riconsegnato al proprietario che non si dimostrò molto felice nel riaverlo. Il mio amico, allora, ogni giorno si mise di posta al negozio dell’uomo per accertarsi che il cane fosse trattato bene.
Quando riconsegnai Duke alla sua famiglia, ero a terra. Era come se una parte di me mi fosse stata strappata a viva forza.
«Non hai provato a tenerlo per te?»
La domanda di Tom mi riportò al presente e con un sospiro risposi:
«Legalmente non era mio. Prova a immaginare il tuo papà che va in guerra e quando questa finisce anziché tornare da te va da un altro bambino.»
Lui rabbrividì al solo pensiero e mormorò:
«Allora lo hai riconsegnato.»
«A malincuore. Ma non rimasi lontano da lui per molto.»
«Perché?» e nei suoi occhi brillò una luce di speranza.
Inspirai a fondo, memore di un dolore che ancora non ho dimenticato, e risposi con un groppo in gola:
«Duke si ammalò.»
«Si è ammalato per colpa della guerra?»
«No, si è ammalato e basta. I proprietari mi avvisarono ed io mi precipitai al suo fianco. Rimasi con lui fino alla fine. Un compagno non si abbandona mai. Soprattutto “quel” compagno.»
Tom mi guardò a lungo, mentre imboccavo il vialetto di casa. Le luci erano accese e di certo la cena era già pronta. Dalla finestra della stanza di Betty si udiva lo stereo suonare una canzone dei Deep Purple e sospirai.
«Ti manca, vero?» domandò Tom all’improvviso.
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma il nodo in gola me lo impedì. Deglutii, tossicchiai e tirai su con il naso. Alla fine risposi con un filo di voce:
«Più di quanto tu possa immaginare.»
Tom annuì appena, aprì la portiera e prima di andarsene fece una cosa che da un po’ non faceva più: mi posò un bacio sulla guancia.
Io sorrisi e quando misi la retromarcia mi accorsi che stavo piangendo.
In ricordo di tutti i valorosi soldati a quattro zampe.
Monica Valentini Recensioni
«Bella questa!» esclamò felice.
«Sì?» feci io scettico. «Bella? Non la conosco.»
«Ma nonno!» esclamò lui come se avessi appena proferito un’eresia. «Come fai a non conoscerla? Risuona in ogni bar, in ogni discoteca, in ogni programma televisivo!»
Io sorrisi e svoltai a destra, immettendomi sulla superstrada.
«È così grave?» domandai.
Tom si girò a guardarmi come se fossi un marziano e in lui rividi me stesso, gli stessi occhi, la medesima espressione. L’identica innocenza quando avevo la sua età. Anche non sapendolo, chiunque avrebbe indovinato il grado di parentela.
«Sì, insomma... chi è che canta?» domandai divertito.
«Ma è Donna Summer, nonno! La regina della disco!» rispose lui sgranando gli occhioni e indicando lo stereo.
«Ah, Donna Summer.» ripetei pensieroso. «Mi sa che l’ho già sentita nominare.»
Lui, uno scricciolo di dodici anni, incrociò le braccia sul petto e scosse la testa.
«Certo che l’hai sentita. La conosce pure Betty.»
E con queste due semplici frasi mi liquidò come un matusa.
Betty era sua sorella maggiore, un’adolescente moderna tutta rock che impazziva per i Deep Purple e Jimi Hendrix, musica che io non sono mai riuscito ad apprezzare. Ma, a detta di Tom, se persino Betty conosceva questa Donna Summer, significava solo che ero un matusa rimbambito.
«Bene.» risposi accettando la sfida insita. «Visto che questa mia lacuna è terribilmente grave, allora ti domando se conosci Duke.»
Tom rifletté un attimo, quindi scosse la testa ricciuta.
«Giustappunto.» commentai concentrandomi sulla guida.
«E chi è questo Duke? Forse intendi Duke Ellington?»
«No, intendo solo Duke.»
Lui si agitò sul sedile, indispettito ed io sorrisi.
«Bene. Questo significa che non lo conosci.» interpretai con tono pacato.
«No.» ammise a denti stretti.
«Allora, se permetti, questo vecchio ti racconterà una storia fintanto che arriviamo a casa.»
«Chi è questo Duke?» incalzò incuriosito. «Un mago? Un extraterrestre? Un supereroe! È un supereroe, vero, nonno?»
Sorrisi divertito dinanzi alla sua faccia e allungai la mano per abbassare il volume dello stereo. In effetti aveva quasi indovinato: Duke era un eroe, ma non come immaginava lui.
La superstrada era un po’ ingorgata e prima di giungere a casa di mia figlia avrei avuto tutto il tempo di raccontare a Tom la mia storia.
«Duke non era nulla di tutto ciò. Era un cane. Era il mio miglior amico, il più fidato e fedele.»
«Un cane?» ripeté con tono che denunciava la delusione.
«Già. Un cane. Un bellissimo pastore tedesco.»
«Ed era tuo?»
«In un certo senso.»
Tom mi guardò incuriosito ed io spiegai:
«Era un membro dei marines.»
«Un marine?!» esclamò sgranando gli occhi.
Io annuii, certo di aver accalappiato la sua attenzione e lui incalzò:
«Ed era tuo?»
«Non proprio, te l’ho detto. L’esercito me lo affidò affinché ne facessi un vero marine.»
Tom si allungò e spense lo stereo, quindi mi guardò e chiese:
«Nonno, questo vuol dire che tu eri nei marines?»
«Già.»
«E perché io non lo so?» borbottò con aria indignata.
«Forse perché eri troppo piccolo e tua madre non ha voluto raccontarti storie tristi.»
«Storie tristi?»
In quel momento mi resi conto che mi ero addentrato su un terreno pericoloso e mi schiarii la gola prima di rispondere:
«Diciamo che le storie di guerra non sono mai belle.»
«Quale guerra? Il Vietnam?»
«No, la Seconda Guerra Mondiale.» risposi con un groppo in gola.
Mio nipote aggrottò le sopracciglia, senza staccarmi gli occhi di dosso e alla fine spiegai:
«Tuo nonno è stato in guerra.»
Lo vidi aprire la bocca e richiuderla di scatto e subito dopo domandò con un misto di eccitazione e paura:
«Hai ucciso degli uomini?»
Feci una smorfia e risposi con tono fermo:
«Non è questo il punto. Il punto è che stiamo parlando di Duke.»
«Sì, ma cosa c’entra un cane con la guerra?»
«C’entra, c’entra.» risposi mesto.
«Allora tu eri un marine?»
Annuii appena e mi resi conto che in quell’istante mio nipote non mi vedeva più come il nonno matusa e un po’ scontroso e rigido, bensì come un essere nuovo, quasi un alieno.
Non mi è mai piaciuto raccontare della mia esperienza in guerra, ma volevo condividere con Tom l’amore più grande che avevo vissuto nella mia vita. E così iniziai, sotto i suoi occhi rapiti che tanto ricordavano i miei.
Il Pacifico era stato un teatro di guerra bruttissimo; forse più brutto dell’Europa, sicuramente più orrendo dell’Africa. Mentre nel continente nero si combatteva l’ultima guerra di “cavalleria”, nel senso che entrambi i contendenti si stimavano e si rispettavano nonostante si temessero, in Europa i contendenti massacravano milioni di civili indifesi. Noi, nel Pacifico, dovevamo combattere contro i giapponesi. Solo chi ci ha combattuto contro può capire di che stoffa siano.
Avevo poco più di venticinque anni quando mi arruolai per servire il mio paese: mi spedirono nei marines, unità cinofila.
All’inizio non avevo ben chiaro il senso di questa unità, ma quando mi assegnarono Duke fu come accendere una lampadina in un capannone buio. In genere i cani addestrati erano dobermann, ma c’erano alcune eccezioni, tra cui Duke, un pastore tedesco di due anni, giovane e scattante, giocherellone e affettuoso. I proprietari avevano aderito alla richiesta dello Stato di arruolare i cani per farne dei veri e propri soldati, con la promessa che li avrebbe restituiti al termine della guerra. Un po’ come il soldato che torna in famiglia.
Così, insieme agli uomini del mio reparto, iniziai ad addestrare Duke su come scoprire una mina, su come fiutare la polvere da sparo, su come imparare a paracadutarsi e via dicendo. Ogni mio commilitone aveva un cane e subito tra noi e le bestiole si instaurò un rapporto di amicizia.
Per alcune settimane ci dedicammo all’addestramento dei cani e la sera, quando andavamo in licenza, li portavamo con noi. I gestori dei bar avevano imparato a conoscerli e non chiedevano più di lasciarli fuori del locale.
Duke era bravissimo e imparava in fretta. Imparava a diventare un soldato come altri cinquecento suoi simili. Non avvertiva mai la fatica: per lui era sempre tutto un gioco. Quando indossavo le imbottiture per aizzarlo ad attaccarmi, lui all’inizio chinava la testa da un lato, forse domandandosi perché mai avrebbe dovuto assalirmi. Poi capiva e allora mi si avventava contro con i suoi micidiali canini bene in mostra. Quando azzannava un braccio o una gamba non mollava mai la presa ed io ringraziavo le imbottiture che mi salvavano da una simile furia.
Un po’ più difficile fu insegnargli a saltare in un fosso. All’inizio le buche non erano altissime e lui non aveva problemi a saltarci dentro. Ma poi, quando passavamo a quelle più alte, si tirava indietro timoroso. Allora gli mostravo come fare: salire le scale, prendere un bel respiro e lanciarsi nel vuoto. Solo quando feci finta di essermi fatto male, trovò il coraggio di lanciarsi. Fu una conquista.
La prima volta che feci esplodere una granata per abituarlo ai rumori forti, Duke corse a rifugiarsi sotto una sedia, con le orecchie abbassate e gli occhi spaesati. Tremava dalla paura ed io rimasi seduto accanto a lui accarezzandolo per farlo sentire al sicuro. Ci volle un po’ di tempo per abituarlo alle deflagrazioni e alle armi in generale e lo stesso dicasi per gli altri cani. Alla fine, però, i nostri amici a quattro zampe ci ricompensarono dimostrandoci un coraggio sovrannaturale.
Dovevano imparare bene il mestiere del soldato se volevano tornare sani e salvi, perché i compiti più rischiosi sarebbero toccati a loro. Ed io non volevo che a Duke capitasse qualcosa. Così dedicavo l’intera giornata a giocare con lui, in realtà a insegnargli a sopravvivere.
Il legame che si instaurò tra me e Duke fu di totale e indissolubile amicizia e reciproca fiducia. Ero giunto a dormire con lui, consapevole che solo la sua vicinanza mi avrebbe dato la forza di andare in guerra e di compiere il mio dovere. E lo stesso dicasi per i miei commilitoni. Ogni ragazzo era profondamente legato al suo cane. Penso che avremmo potuto uccidere se qualcuno avesse fatto loro del male.
Poi arrivò il giorno.
Ci imbarcarono per andare a espugnare l’isola di Guam.
Sapevo, dai racconti fatti dagli altri marines, che i giapponesi non si sarebbero mai arresi, che avrebbero preferito la morte alla consegna dell’isola o delle loro stesse vite. Insomma, ci preparavamo a dover combattere centimetro per centimetro.
Duke era con me, sempre. Lui ed io eravamo una sola entità, vivevamo in simbiosi. Non chiedeva mai nulla, dava solo. Ed io lo amavo come un fratello.
Era il 21 luglio del 1944 quando la prima ondata di mezzi da sbarco approdò sull’isola. Dopo pochi minuti la bandiera americana era già piantata sulla spiaggia. Non lo sapevamo, ma era solo l’inizio di una battaglia che si sarebbe protratta fino all’8 agosto, con un massacro di uomini. Solo da parte giapponese ne morirono circa ventimila.
Io e Duke sbarcammo e subito capimmo che non avremmo avuto vita facile. A dispetto della testa di ponte, i nipponici ci sparavano addosso senza che noi riuscissimo a capire da che parte giungessero le mitragliate. Ero terrorizzato. Per un po’ rimasi impietrito dal terrore, inchiodato sulla spiaggia e Duke al mio fianco. Se non fosse stato perché a un certo punto realizzai che il mio amico poteva essere colpito, probabilmente ci avrebbero falciati lì. Invece mi feci coraggio e preso Duke per il collare, lo trascinai al riparo. Lì me lo strinsi al petto e piansi, mentre vedevo gli uomini cadere come mosche.
Il rumore, i boati, gli incendi erano all’ordine del giorno. Le grida dei soldati erano terrificanti, vuoi che fossero di dolore, vuoi che fossero di ordini impartiti e solo grazie alla vicinanza di Duke trovai il coraggio di andare avanti.
Se c’era da attraversare un pezzo di foresta, i cani erano i primi ad andare avanti per fiutare mine antiuomo e anticarro. Ogni tanto vedevi questi animali che si bloccavano e si mettevano ad abbaiare e capivi che avevano scoperto una mina. Allora intervenivano gli artificieri e solo dopo gli uomini proseguivano.
Se capitava un guasto alla radio, il cane era usato come staffetta e nell’imbracatura gli venivano messi i messaggi da consegnare al quartier generale. Se c’era da trasportare un ferito, i cani trainavano la barella.
Erano sempre loro a fiutare la presenza dei giapponesi: in quelle occasioni mostravano il loro lato aggressivo, spaventando a morte il malcapitato.
Ci sono stati giorni in cui il cibo scarseggiava. Quel poco che avevo lo preparavo per Duke, porgendoglielo all’interno dell’elmetto. Poi, quando aveva finito, riempivo l’elmetto di acqua affinché si dissetasse e dopo me lo rimettevo in testa. Quanto a me, mi arrangiavo con quello che offriva la foresta. Preferivo digiunare io pur di far stare bene Duke.
Un paio di cani morirono sotto i miei occhi durante un assalto a una casamatta. Non potrò mai dimenticare il pianto disperato dei miei commilitoni. E anch’io piansi, non mi vergogno ad ammetterlo.
Duke era l’unico vero amico in cui potevo confidare, l’unico che avrebbe sacrificato la vita per salvarmi e il solo che non avrebbe mai chiesto nulla in cambio, ma solo affetto. Lui era una parte di me. Condividevamo tutto, dalla paura alla gioia, dalla tristezza alla speranza.
Quando scrivevo alla mia fidanzata, le raccontavo sempre di Duke e di quante vite salvava ogni giorno, compresa la mia. Se non fosse stato perché un giorno mi saltò addosso all’improvviso, mentre camminavo nella foresta, sarei esploso sulla mina nascosta lungo il mio cammino.
Alla fine, tuttavia, conquistammo l’isola, sebbene troppi pagarono con la vita quella vittoria. Fu un’esperienza che mi segnò nel profondo.
Quando la guerra terminò, tornai in America con Duke. Insieme eravamo sopravvissuti all’inferno ed era sufficiente questo a straziarmi il cuore al pensiero che avrei dovuto restituirlo ai legittimi proprietari. Certo, per un periodo saremmo ancora rimasti insieme perché avrei dovuto riaddestrarlo alla vita normale e dentro di me sperai che Duke superasse l’esame: in caso contrario avrei dovuto sopprimerlo. Lo Stato non ammetteva che i cani stati in guerra fossero reintegrati senza una adeguata educazione.
Nel frattempo, con tutti gli onori e alla presenza delle più alte cariche, Duke e altri cani, avvolti in un mantello con la scritta “U.S. Marines”, furono insigniti della croce d’argento a ricordo del loro coraggio e delle tante vite salvate. Fu commovente ed io ero fiero e orgoglioso di aver avuto un camerata simile.
Duke si dimostrò bravissimo anche nell’addestramento che lo proiettava di nuovo alla vita civile. Seppi che solo quattro su cinquecento cani furono abbattuti. Il dobermann di un mio amico fu riconsegnato al proprietario che non si dimostrò molto felice nel riaverlo. Il mio amico, allora, ogni giorno si mise di posta al negozio dell’uomo per accertarsi che il cane fosse trattato bene.
Quando riconsegnai Duke alla sua famiglia, ero a terra. Era come se una parte di me mi fosse stata strappata a viva forza.
«Non hai provato a tenerlo per te?»
La domanda di Tom mi riportò al presente e con un sospiro risposi:
«Legalmente non era mio. Prova a immaginare il tuo papà che va in guerra e quando questa finisce anziché tornare da te va da un altro bambino.»
Lui rabbrividì al solo pensiero e mormorò:
«Allora lo hai riconsegnato.»
«A malincuore. Ma non rimasi lontano da lui per molto.»
«Perché?» e nei suoi occhi brillò una luce di speranza.
Inspirai a fondo, memore di un dolore che ancora non ho dimenticato, e risposi con un groppo in gola:
«Duke si ammalò.»
«Si è ammalato per colpa della guerra?»
«No, si è ammalato e basta. I proprietari mi avvisarono ed io mi precipitai al suo fianco. Rimasi con lui fino alla fine. Un compagno non si abbandona mai. Soprattutto “quel” compagno.»
Tom mi guardò a lungo, mentre imboccavo il vialetto di casa. Le luci erano accese e di certo la cena era già pronta. Dalla finestra della stanza di Betty si udiva lo stereo suonare una canzone dei Deep Purple e sospirai.
«Ti manca, vero?» domandò Tom all’improvviso.
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma il nodo in gola me lo impedì. Deglutii, tossicchiai e tirai su con il naso. Alla fine risposi con un filo di voce:
«Più di quanto tu possa immaginare.»
Tom annuì appena, aprì la portiera e prima di andarsene fece una cosa che da un po’ non faceva più: mi posò un bacio sulla guancia.
Io sorrisi e quando misi la retromarcia mi accorsi che stavo piangendo.
In ricordo di tutti i valorosi soldati a quattro zampe.
Monica Valentini Recensioni
Messaggio in bottiglia
Mi guardai attorno un po’ smarrita: gli scatoloni mi circondavano ovunque, la casa era quasi tutta impacchettata e pronta per il mio trasferimento. Ebbene sì, me ne stavo andando: chi l’avrebbe mai detto? Dopo tanto tempo, una parte di me sarebbe comunque rimasta qui, tra queste mura bianche, che hanno bisogno di una tinteggiata, che io ho evitato di dare perché da mesi ormai sapevo che sarebbe venuto questo momento.
Sospirai e mi diressi verso la credenza, l’unico mobile che restava ancora da espugnare, e quando aprii le ante per scoprire le file di piatti e bicchieri da imballare, fui quasi presa dallo sconforto: interminabili file di piatti e bicchieri acquistati anni prima, parte di una lista nozze sfruttata soltanto a metà. L’altra metà è rimasta a dormire in armadi e credenze per anni, in attesa della grande occasione in cui li avremmo utilizzati, ma quella grande occasione non è mai arrivata. O forse, anche in quell’occasione, ho utilizzato i piatti di tutti i giorni, quelli più semplici e pratici, che non ci si fa problemi a mettere in lavastoviglie, che anche se si rompono non importa.
E poi proprio lì, dietro a quei piatti e bicchieri, è apparsa la bottiglia, con la sua scritta rossa e l’uomo barbuto in cima. Ho sorriso nel vederla, come si sorride ad una vecchia amica che non si incontrava da anni.
Mi ero dimenticata di lei, eppure, quando l’avevo nascosta lì dietro, ero stata decisa a tenermela per sempre, a non fartela trovare perché non te la portassi via. E così è stato, la bottiglia è rimasta qui, insieme ai piatti e a questa casa, e il mio primo pensiero, nel ritrovarla, è stato che ora verrà via con me, nell’altra casa, nell’altra vita che sto per cominciare.
Ho allungato una mano e l’ho presa per il collo, poi me la sono rigirata, guardandola da tutti i lati e leggendo il nome del vino pregiato: Château Petrus. Ripetei quel nome dentro di me, come l’avevo ripetuto quella sera, tanti anni fa, quando eri stato tu a rigirarti la bottiglia tra le mani, a guardarla, a leggere l’etichetta, a commentare l’annata. Il vino migliora con gli anni, forse la parte migliore di noi se n’è andata invece col tempo.
Non mi diceva molto quel nome, non capendo io niente di vino, mi piaceva invece la scritta rossa. Ricordo che mi mostrasti quel regalo come se fosse qualcosa di molto prezioso, eri felice di spiegarmi le caratteristiche e il valore di quel liquido, che non bevesti mai. Perché a quei tempi mi amavi e desideravi condividere tutto con me, rendermi partecipe delle tue gioie, dei tuoi piaceri.
Anch’io ti amavo, e ascoltavo le tue parole, facendo attenzione a non perdermi nemmeno una sillaba, perché mi interessava capire quello che ti piaceva. La passione per il vino, però, non riuscii a condividerla mai, anzi, fu forse proprio quella una delle prime cose che ti resero antipatico ai miei occhi: ad un certo punto mi accorsi di detestare quella tua mania di assaggiare il vino dopo averlo rigirato nel bicchiere e annusato, per poi mostrare un’espressione rapita o contrariata a seconda dell’esito dell’assaggio.
Lo facesti anche quella sera, dopo che, al terzo mese, avevo perso il bambino che avevo tanto voluto, il bambino di cui conoscevo già il nome e di cui avevo immaginato così tante volte il colore degli occhi e dei capelli. E invece all’improvviso, una mattina, una macchia di sangue mi avvertì che quel bambino se n’era andato, non avevano importanza né il colore dei suoi occhi né quello dei suoi capelli, non avrebbe mai portato il nome che avevo scelto per lui.
Sedevo accanto a te in quel ristorante, che era uno dei nostri preferiti, dove andavamo abbastanza spesso nei momenti felici e dove mi avevi portato per tentare di farmi dimenticare, per farmi uscire dall’apatia che mi aveva assalito. Mi avevi preso la mano, mi parlavi con voce bassa, raccontandomi qualcosa di buffo che ti era successo durante la giornata, cercando di farmi ridere. Improvvisamente la tua attenzione venne polarizzata dal cameriere, ti interrompesti per guardarlo mentre versava la quantità di vino sufficiente all’assaggio, agitasti il vino nel bicchiere, lo assaggiasti e poi lo allontanasti inorridito: “Sa di tappo!”
Adesso che ci ripenso, dopo così tanto tempo, credo fu proprio quello il momento in cui finì il nostro matrimonio. Sì, lo so, restammo sposati ancora due anni e per un anno e mezzo ci riprovammo e tentammo di nuovo di far nascere quel bambino che non ne voleva sapere, ma quella sera, in quel momento, mi resi conto per la prima volta di quanto fossimo lontani.
Io ero distrutta, perché avevo perso il mio bambino, perché il 20 maggio (quello era il termine, me lo ricordo ancora) invece di andare in ospedale e partorire, avrei vissuto una giornata qualunque, identica a mille altre che avevo già vissuto e di cui non mi importava niente. E tu? Cosa facevi tu nel frattempo? Ti scandalizzavi perché il vino sapeva di tappo.
Continuammo a vivere insieme in questa casa per altri due anni, questa casa che avevamo tanto amato e arredato con cura, scegliendo le cose che più ci piacevano, e che all’improvviso mi sembrava diventata troppo stretta per noi due. Un tempo avevo desiderato vivere con te, avevo amato vedere il tuo rasoio appoggiato sulla mensola del bagno accanto alla mia crema idratante, ora invece mi chiedevo perché mai non potessi avere una mensola tutta per me. Desideravo uno spazio mio, dove lasciar scorrere indisturbato il mio dolore, dove piangere il mio bambino, senza che arrivassi tu a consolarmi, dapprima pazientemente, e poi con un’aria sempre più infastidita. Per te, che quel bambino ci fosse o no, non importava poi tanto. Se non era venuto, ci sarà pur stato un motivo, dicevi e questo bastava a consolarti e ti sembrava assurdo che la tua semplice logica non bastasse a consolare anche me.
Per un anno e mezzo ci riprovammo, prestavo attenzione ad ogni minimo segnale del mio corpo e ti avvertivo che quella sera poteva essere buona. A volte ti lamentavi che eri stanco, che eri tornato tardi dal lavoro e mi sembrava terribilmente infantile che potessi pensare di gettare via un’occasione, una possibilità, solo per un momento di stanchezza.
Da qualche parte, dentro di me, mi rendevo conto che ti stavo stancando, ma non mi importava più di tanto. Anch’io, nonostante non ci pensassi mai, ero stanca di te, eppure non mi sembrava qualcosa di così importante da lasciare che la mente vi indugiasse.
Facevamo l’amore più che altro per dovere, per sfruttare quel momento buono, dimenticando i gesti che ci avevano dato tanta gioia soltanto fino a pochi anni prima, e sostituendoli con altri, affrettati e stereotipati.
Quando mi dicesti che te ne volevi andare, che avevi un’altra donna, ti odiai profondamente. Non per l’altra donna, non perché ti amassi ancora, ma per tutte le aspettative mancate, per il nostro amore naufragato. In quei momenti riuscivo soltanto a pensare alla ragazza che ero stata quando ti avevo sposato, a come ti avessi amato e ascoltato le tue parole, desiderato un figlio con i capelli e gli occhi del colore dei tuoi.
Così mi barricai in questa casa, che avevamo creato a nostra immagine e somiglianza, decisa a non lasciartene nemmeno un brandello. Tu te ne andasti, ma continuasti a reclamarne i pezzi, un giorno un quadro di cui ignoravi la provenienza, un giorno un mobiletto che avevi sempre odiato, un altro giorno un tappeto al quale avevi sempre sostenuto di essere allergico.
Preso dalla foga di portarti via qualcosa che potesse interessarmi, ti dimenticasti della bottiglia, la tua bottiglia piena di quel prezioso liquido, che invecchiando acquista valore. In quei giorni aprivo la credenza e la guardavo, nascosta dietro le file di piatti, e sorridevo felice. Era la mia piccola vittoria, la mia rivincita.
Quanto tempo è passato? Per me moltissimo, da anni non penso più a quel bambino che ho tanto desiderato e forse, se me lo ritrovassi davanti oggi, ormai adolescente, non saprei nemmeno più cosa dirgli o che nome dargli. Ho vissuto a lungo da sola, in questa casa, rimpiazzando gli oggetti che ti sei portato via con altri, a cui mi sono affezionata e di cui ho riempito una ventina di scatoloni, da portare via e invadere la casa di un altro uomo con cui ho deciso di risposarmi.
Non è stato facile avere il tuo indirizzo, perché di conoscenti in comune ormai ne abbiamo pochi. Ma alla fine ti ho trovato. Mi hanno detto che vivi con una donna da parecchi anni, non quella per cui mi hai lasciato, un’altra, e avete un bambino di cinque anni. Hai ancora il quadro e il mobiletto e il tappeto? O forse li hai buttati, dimenticati in qualche altro appartamento da cui sei uscito per l’ultima volta, sbattendo la porta come quella sera? Beh, come vedi, io ho conservato la bottiglia, anzi, per la verità me la sono dimenticata in un angolo della credenza, perché per me, da tanto tempo, non ha più importanza e credo che forse sia venuto per te il momento di bere questo vino, il cui valore sarà aumentato con il passare degli anni, così come è diminuito il peso di certi ricordi.
Manuela Cagnoni Recensioni
Sospirai e mi diressi verso la credenza, l’unico mobile che restava ancora da espugnare, e quando aprii le ante per scoprire le file di piatti e bicchieri da imballare, fui quasi presa dallo sconforto: interminabili file di piatti e bicchieri acquistati anni prima, parte di una lista nozze sfruttata soltanto a metà. L’altra metà è rimasta a dormire in armadi e credenze per anni, in attesa della grande occasione in cui li avremmo utilizzati, ma quella grande occasione non è mai arrivata. O forse, anche in quell’occasione, ho utilizzato i piatti di tutti i giorni, quelli più semplici e pratici, che non ci si fa problemi a mettere in lavastoviglie, che anche se si rompono non importa.
E poi proprio lì, dietro a quei piatti e bicchieri, è apparsa la bottiglia, con la sua scritta rossa e l’uomo barbuto in cima. Ho sorriso nel vederla, come si sorride ad una vecchia amica che non si incontrava da anni.
Mi ero dimenticata di lei, eppure, quando l’avevo nascosta lì dietro, ero stata decisa a tenermela per sempre, a non fartela trovare perché non te la portassi via. E così è stato, la bottiglia è rimasta qui, insieme ai piatti e a questa casa, e il mio primo pensiero, nel ritrovarla, è stato che ora verrà via con me, nell’altra casa, nell’altra vita che sto per cominciare.
Ho allungato una mano e l’ho presa per il collo, poi me la sono rigirata, guardandola da tutti i lati e leggendo il nome del vino pregiato: Château Petrus. Ripetei quel nome dentro di me, come l’avevo ripetuto quella sera, tanti anni fa, quando eri stato tu a rigirarti la bottiglia tra le mani, a guardarla, a leggere l’etichetta, a commentare l’annata. Il vino migliora con gli anni, forse la parte migliore di noi se n’è andata invece col tempo.
Non mi diceva molto quel nome, non capendo io niente di vino, mi piaceva invece la scritta rossa. Ricordo che mi mostrasti quel regalo come se fosse qualcosa di molto prezioso, eri felice di spiegarmi le caratteristiche e il valore di quel liquido, che non bevesti mai. Perché a quei tempi mi amavi e desideravi condividere tutto con me, rendermi partecipe delle tue gioie, dei tuoi piaceri.
Anch’io ti amavo, e ascoltavo le tue parole, facendo attenzione a non perdermi nemmeno una sillaba, perché mi interessava capire quello che ti piaceva. La passione per il vino, però, non riuscii a condividerla mai, anzi, fu forse proprio quella una delle prime cose che ti resero antipatico ai miei occhi: ad un certo punto mi accorsi di detestare quella tua mania di assaggiare il vino dopo averlo rigirato nel bicchiere e annusato, per poi mostrare un’espressione rapita o contrariata a seconda dell’esito dell’assaggio.
Lo facesti anche quella sera, dopo che, al terzo mese, avevo perso il bambino che avevo tanto voluto, il bambino di cui conoscevo già il nome e di cui avevo immaginato così tante volte il colore degli occhi e dei capelli. E invece all’improvviso, una mattina, una macchia di sangue mi avvertì che quel bambino se n’era andato, non avevano importanza né il colore dei suoi occhi né quello dei suoi capelli, non avrebbe mai portato il nome che avevo scelto per lui.
Sedevo accanto a te in quel ristorante, che era uno dei nostri preferiti, dove andavamo abbastanza spesso nei momenti felici e dove mi avevi portato per tentare di farmi dimenticare, per farmi uscire dall’apatia che mi aveva assalito. Mi avevi preso la mano, mi parlavi con voce bassa, raccontandomi qualcosa di buffo che ti era successo durante la giornata, cercando di farmi ridere. Improvvisamente la tua attenzione venne polarizzata dal cameriere, ti interrompesti per guardarlo mentre versava la quantità di vino sufficiente all’assaggio, agitasti il vino nel bicchiere, lo assaggiasti e poi lo allontanasti inorridito: “Sa di tappo!”
Adesso che ci ripenso, dopo così tanto tempo, credo fu proprio quello il momento in cui finì il nostro matrimonio. Sì, lo so, restammo sposati ancora due anni e per un anno e mezzo ci riprovammo e tentammo di nuovo di far nascere quel bambino che non ne voleva sapere, ma quella sera, in quel momento, mi resi conto per la prima volta di quanto fossimo lontani.
Io ero distrutta, perché avevo perso il mio bambino, perché il 20 maggio (quello era il termine, me lo ricordo ancora) invece di andare in ospedale e partorire, avrei vissuto una giornata qualunque, identica a mille altre che avevo già vissuto e di cui non mi importava niente. E tu? Cosa facevi tu nel frattempo? Ti scandalizzavi perché il vino sapeva di tappo.
Continuammo a vivere insieme in questa casa per altri due anni, questa casa che avevamo tanto amato e arredato con cura, scegliendo le cose che più ci piacevano, e che all’improvviso mi sembrava diventata troppo stretta per noi due. Un tempo avevo desiderato vivere con te, avevo amato vedere il tuo rasoio appoggiato sulla mensola del bagno accanto alla mia crema idratante, ora invece mi chiedevo perché mai non potessi avere una mensola tutta per me. Desideravo uno spazio mio, dove lasciar scorrere indisturbato il mio dolore, dove piangere il mio bambino, senza che arrivassi tu a consolarmi, dapprima pazientemente, e poi con un’aria sempre più infastidita. Per te, che quel bambino ci fosse o no, non importava poi tanto. Se non era venuto, ci sarà pur stato un motivo, dicevi e questo bastava a consolarti e ti sembrava assurdo che la tua semplice logica non bastasse a consolare anche me.
Per un anno e mezzo ci riprovammo, prestavo attenzione ad ogni minimo segnale del mio corpo e ti avvertivo che quella sera poteva essere buona. A volte ti lamentavi che eri stanco, che eri tornato tardi dal lavoro e mi sembrava terribilmente infantile che potessi pensare di gettare via un’occasione, una possibilità, solo per un momento di stanchezza.
Da qualche parte, dentro di me, mi rendevo conto che ti stavo stancando, ma non mi importava più di tanto. Anch’io, nonostante non ci pensassi mai, ero stanca di te, eppure non mi sembrava qualcosa di così importante da lasciare che la mente vi indugiasse.
Facevamo l’amore più che altro per dovere, per sfruttare quel momento buono, dimenticando i gesti che ci avevano dato tanta gioia soltanto fino a pochi anni prima, e sostituendoli con altri, affrettati e stereotipati.
Quando mi dicesti che te ne volevi andare, che avevi un’altra donna, ti odiai profondamente. Non per l’altra donna, non perché ti amassi ancora, ma per tutte le aspettative mancate, per il nostro amore naufragato. In quei momenti riuscivo soltanto a pensare alla ragazza che ero stata quando ti avevo sposato, a come ti avessi amato e ascoltato le tue parole, desiderato un figlio con i capelli e gli occhi del colore dei tuoi.
Così mi barricai in questa casa, che avevamo creato a nostra immagine e somiglianza, decisa a non lasciartene nemmeno un brandello. Tu te ne andasti, ma continuasti a reclamarne i pezzi, un giorno un quadro di cui ignoravi la provenienza, un giorno un mobiletto che avevi sempre odiato, un altro giorno un tappeto al quale avevi sempre sostenuto di essere allergico.
Preso dalla foga di portarti via qualcosa che potesse interessarmi, ti dimenticasti della bottiglia, la tua bottiglia piena di quel prezioso liquido, che invecchiando acquista valore. In quei giorni aprivo la credenza e la guardavo, nascosta dietro le file di piatti, e sorridevo felice. Era la mia piccola vittoria, la mia rivincita.
Quanto tempo è passato? Per me moltissimo, da anni non penso più a quel bambino che ho tanto desiderato e forse, se me lo ritrovassi davanti oggi, ormai adolescente, non saprei nemmeno più cosa dirgli o che nome dargli. Ho vissuto a lungo da sola, in questa casa, rimpiazzando gli oggetti che ti sei portato via con altri, a cui mi sono affezionata e di cui ho riempito una ventina di scatoloni, da portare via e invadere la casa di un altro uomo con cui ho deciso di risposarmi.
Non è stato facile avere il tuo indirizzo, perché di conoscenti in comune ormai ne abbiamo pochi. Ma alla fine ti ho trovato. Mi hanno detto che vivi con una donna da parecchi anni, non quella per cui mi hai lasciato, un’altra, e avete un bambino di cinque anni. Hai ancora il quadro e il mobiletto e il tappeto? O forse li hai buttati, dimenticati in qualche altro appartamento da cui sei uscito per l’ultima volta, sbattendo la porta come quella sera? Beh, come vedi, io ho conservato la bottiglia, anzi, per la verità me la sono dimenticata in un angolo della credenza, perché per me, da tanto tempo, non ha più importanza e credo che forse sia venuto per te il momento di bere questo vino, il cui valore sarà aumentato con il passare degli anni, così come è diminuito il peso di certi ricordi.
Manuela Cagnoni Recensioni
Novella
Era una sera d’inverno come tante altre. Tutti erano rinchiusi nelle loro case. Faceva molto freddo.
Fuori il vento ululava tra le vie deserte e scuoteva i rami nudi degli alberi. Al contrario della stagione invernale, durante l’estate il paesaggio sembrava uno spettacolo da fiaba.
Dentro la vecchia cascina, la tranquillità aleggiava nell’aria tra la coppia di anziani seduti a fronte del camino dalle alte fiamme: Adele e Mario.
All’improvviso, a rompere il silenzio fu l’anziana signora, la quale con tono di voce persuasivo incominciò:
“Caro marito mi è venuta un’idea. E’ il caso che tu vada in città a vendere una delle nostre due mucche.
“Non pensi che basti solo una a darci latte, formaggio e burro a sufficienza?”.
La donna dopo aver tirato un profondo respiro guardò il soffitto e a mani giunte continuò:
“Figli non ne abbiamo, i nipoti ci trascurano, non fanno niente per noi, non si dimostrano riconoscenti di ciò che possediamo e non si prendono cura della nostra anzianità.
“E’ arrivato il momento di risparmiare le forze e cercare di trascorrere i giorni della nostra vecchiaia con più tranquillità”.
La coppia abitava una vecchia fattoria lontana dalla città, situata alla periferia di una borgata. I due invecchiavano tranquillamente senza preoccuparsi del tempo che lentamente passava. Conducevano una vita semplice. La cascina era di loro proprietà, il bestiame domestico abbondava di polli, tacchini ed altri animali da cortile. Il tutto era più che sufficiente per i due. In più avevano un gruzzolo di soldi riposti nel cassetto di un vecchio armadio. Potevano con tranquillità attendere la fine dei loro giorni senza paura di finire in miseria, prima che giungesse il dolce abbraccio della morte.
Riguardo alla signora Adele, poche erano le volte che si allontanava dalla sua abitazione. Per andare in Chiesa, quando doveva macinare il frumento, oppure, quando da lontano avvistava davanti al mulino un folto numero di donne, nell’attesa del proprio turno per la macinatura di cereali. Occasione propizia per parlare o fare nuove conoscenze.
Per le donne il mulino rappresentava un punto d’incontro e di scambio di idee. Quando c’era molta gente ad aspettare il proprio turno, spesso compariva la moglie del mugnaio, la quale, per ingannare il tempo di attesa dei clienti, si rendeva utile nel raccontare storie di altri tempi.
Le novelle più richieste erano due e la moglie del mugnaio, secondo il numero delle donne presenti, raccontava o quella romantica della giovane sposa Milena, oppure il fascinoso episodio capitato a Teresa.
Teresa, una giovane donna in preda alla disperazione per la prematura dipartita del marito. Milena, con un preciso intento, vale a dire quello di sedare la voglia di partecipare ad un ballo da favola nel castello del conte. In entrambi i casi la medesima finalità: una precisa collocazione nella sfera del mistero.
La favola del principe ed il boscaiolo era poco gradita e la signora l’aveva cancellata dal suo repertorio narrativo, come quella dell’amore morboso del figlio del conte verso l’amata, dal tragico finale.A seguito dell’idea proposta dalla moglie Adele, Mario durante la notte rifletté e convenne che aveva ragione. Era proprio giusta la sua idea e decise di mettere in pratica il consiglio. Di mattino presto lasciò il letto, indossò gli abiti della domenica, si portò nella stalla, si accostò ad una delle due mucche, le circondò il collo con una corda di canapa e intraprese la via sterrata che conduceva alla città.
Durante il percorso Mario oltrepassò parecchi casolari solitari, abbastanza distanti l’un l’altro fra loro. Tutti con un capanno, dentro il quale stazionavano gli animali da cortile. In uno di essi, nel recinto attiguo all’abitazione, fu attratto dalla presenza di oche, caprette, maiali, e due puledri dal manto nero. I quali, agili e vigorosi correvano gioiosamente circuendo la staccionata del recinto. Animali, che Mario non aveva a casa sua e non gli sarebbe dispiaciuto possedere almeno una capra, un’oca oppure un cavallo.
Dopo tanto camminare, raggiunta la città si portò nel luogo dove si teneva il mercato, ma trovò il piazzale vuoto. Nessuna bancarella né uomini indaffarati nelle trattative.
Aveva sbagliato giorno?
S’informò da un freddoloso passante e questi gli rispose:
”Ogni primo martedì della settimana fanno la compra-vendita del bestiame. Oggi è mercoledì. Ti tocca aspettare. Oppure, ritornare la settimana prossima”.
- Pazienza - pensò Mario, - vuol dire che tornerò a casa con la mucca. La strada da percorrere è la stessa. Di certo non è più lunga al ritorno -.
Un po’ deluso e senza troppo riflettere riprese la via del ritorno. Dopo alcune ore di cammino si sentì stanco. Si fermò e sedette su un muricciolo di sassi al bordo della strada. Abbastanza pensieroso e muovendo il capo più volte si rimproverava così:
Avrei dovuto chiedere informazioni al compare barba grigia, che conosce tutti ed è sempre al corrente di tutto. Se fossi stato più accorto e meno precipitoso, mi sarei risparmiato la delusione della mancata vendita e la fatica di riportare la mucca a casa.
Abbandonò il muretto e riprese il cammino. Alzò lo sguardo dal selciato e da lontano avvistò un uomo, che conduceva un cavallo dalle briglie.
La strada per raggiungere la mia casa è ancora tanta e presto sarà notte - brontolò Mario. - Se continuo a tirare la mucca non arriverò a casa prima di domani. -
Un’idea:
-Il cavallo mi sarebbe molto più utile e comodo-, disse tra sé.
A pochi passi dallo sconosciuto, Mario lo fermò e gli chiese se avesse voluto scambiare la mucca con il suo cavallo. Il contadino senza esitare accettò e Mario tutto allegro montò in sella. Il puledro era giovane, scattante, ombroso e Mario non aveva tenuto conto della sua età.
Dopo circa mezz'ora al galoppo senza sella, incominciò a pentirsi dello scambio. Smontò da cavallo e continuò a camminare a piedi tenendo il puledro per le redini, ma con grande fatica.
Non riusciva a tenere il passo dell’animale. Il cavallo voleva correre, e per di più continuava ad impennarsi davanti ad ogni buca esistente sul piano sterrato della via.
- Ho sbagliato – e borbottò improperi. Ma il viso si illuminò di speranze quando vide venirgli incontro un campagnolo, seguito da un mansueto maiale grosso e grasso.
Una visione:
- Un chiodo vale di più di un diamante che brilla e non serve a niente - disse fra sé Mario. Incrociando il campagnolo lo fermò e gli propose di scambiare il suo cavallo con il maiale.
“Se a te va bene, accetto lo scambio”.
E così fu.
- Che bella idea ho avuto – pensò Mario e riprese il cammino. Ben presto notò che il grosso maiale essendo grasso si affaticava facilmente. Ad ogni quattro o cinque passi si bloccava e non voleva saperne di seguirlo.
Mario gli parlò, lo supplicò, l'ingiuriò, niente da fare! Tirò il maiale con una corda, lo spinse per dietro per farlo camminare, lo sculacciò, ma fu tutto inutile. Il suino continuava a grufolare e a restare fermo. All’improvviso si buttò di colpo a terra e cominciò a rotolarsi nella polvere. Non intendeva avanzare e seguitò a non volerlo seguire.
Dopo circa mezz’ora di attesa, lui seduto sopra un sasso, il maiale continuava a restare fermo. Questa volta Mario cominciò a scoraggiarsi sul serio, ma la fortuna venne dalla sua parte quando in lontananza si vide venire incontro un uomo con una capra dal mantello a chiazze di colore bianco-nero e dalle mammelle gonfie di latte.
La capra si muoveva abbastanza agilmente e di tanto in tanto saltellava festosamente.
-Ecco l'animale che ho sempre desiderato. E’ proprio quello che fa per me –.
Si portò la mano destra sulla testa più volte, sfiorandosi i pochi capelli grigi e pensò:
- preferisco una capra allegra e giocherellona a questo maiale grosso, grasso e pigro -.
A pochi passi dal contadino Mario lo salutò per primo. Lo fermò e con garbo si presentò:
“Buon pomeriggio amico”.
“Buon pomeriggio anche a te”.
“Da dove vieni?”.
“Dalla città e non vedo l’ora di arrivare a casa”.
Vi fu subito intesa fra i due e di comune accordo si scambiarono gli animali.
Per circa una mezz'ora tutto andò bene. Spesso la capra saltellava e Mario stette al gioco, ma stanco di assecondarla, di nuovo si pentì dello scambio.
Un miracolo:
Da lontano una nuvola di polvere. Grande fu la gioia di Mario quando vide un pastore, che allegramente avanzava fischiettando in testa al suo belante gregge, con due grossi cani da guardia che vigilavano la mandria.
Mario si fermò al bordo della strada e attese che il pastore arrivasse. Intanto pensò: – una pecora mi darà la lana ed è più mansueta e tranquilla di questa capra dispettosa -.
Avanzò la richiesta e il pastore acconsentì.
“Accetto di scambiare la tua capra con una delle mie pecore. E’ l’animale che mancava al mio gregge” e con sincerità aggiunse - scegliti l’animale che vuoi, buon uomo”.
E così avvenne.
Mario aveva pensato bene. La pecora si dimostrò tranquilla, l'esempio della mansuetudine. Non saltava, non correva, avanzava a piccoli passi. All’improvviso incominciò a belare e quanto più si allontanava dalla mandria più belava.
L’incessante belare continuava ed a Mario cominciò a dargli molto fastidio. Più si allontanava dal gregge e più la pecora voleva ritornare fra il branco. Più Mario la tirava, più frequenti ed acuti erano i lamenti.
- Che stupida bestia - gridò Mario ad alta voce e continuò a tirare la pecora, legata al collo da una corda, con tutte le sue forze. E pensò:- Anche questa volta è andata male. Bisogna che me ne liberi ad ogni costo -.
Arrivato nelle vicinanze di un vecchio casolare sentì un vocione gridare:
“La tua pecora rischia di morire strangolata se continui a tirarla dal collo”.
Il rimprovero proveniva da dietro un folto cespuglio dal quale sbucò un arzillo campagnolo dalla voce roca e dagli indumenti abbastanza discutibili. Il quale senza denti e con la pipa in bocca stringeva fra le braccia una grossa oca.
Mario non badò al rimprovero. Non si scoraggiò. Risoluto e deciso, di rimando gli gridò:
“Amico, se è come dici, dammi la tua oca in cambio della mia pecora“.
Detto fatto, il campagnolo accettò e il baratto avvenne.
Mario agguantò l'oca, la sistemò sotto il braccio destro e riprese il cammino soddisfatto dello scambio. La sua gioia non durò a lungo. L’affare non fu dei migliori. A tenere a bada il volatile si dimostrò una vera impresa.
Diede prova di un animale antipatico l’oca: schiamazzava, si dibatteva, roteava il becco da tutte le parti, agitava le zampe, le ali e cercava continuamente di voler liberarsi dalla stretta e di volar via.
Fu una lotta continua fra lui e la papera. Stanco di combattere, e indignato più del solito, Mario dichiarò ad alta voce:
- Le oche sono proprio stupide.
Ora capisco perché mia moglie non ha mai voluto che schiamazzassero nel cortile –.
L’ingenuo anziano, dopo tutte le disavventure subite, cominciò a sentirsi stanco. Soprattutto confuso. Avanzava lento, silenzioso e deluso. Non sapeva più cosa pensare. Alla presenza di un grosso sasso bianco sedette e si riposò.
Una voce:
“Non disperare. La vita è un’altalena: oggi in basso e domani in alto. Saper prendere con filosofia tutto ciò che accade ogni giorno è solo guadagno. Riprendi il viaggio”.
Giunto nei pressi di una piccola casetta verde, attigua alla quale una donna impegnata a distribuire il mangime agli animali.
Mario, con la papera sotto il braccio si fermò a parlare con l’anziana signora. Di spicco tra gli animali da cortile vi erano parecchi galli dalle variegate piume. Mario se ne innamorò subito ed osò la richiesta:
“Vuoi la mia oca in cambio di uno dei tuoi galli colorati?”. L’anziana acconsentì e lo scambio avvenne.
Gli ritornò l’ottimismo con il quale era partito di mattino presto per andare in città a vendere la mucca. Si sentì soddisfatto Mario. Contento e felice riprese a camminare con tranquillità. Il gallo di tanto in tanto reclamava con voce roca. Allentò la presa e il pollastro spiccò un salto e prese la fuga. Mario lo rincorse con tutta la forza delle gambe, lo acciuffò e gli gridò:
“Vanitoso gallaccio, ora ti sistemo io” e gli legò le zampe.
Il pollo dalle piume colorate, con le zampe legate e la testa all'ingiù, si rassegnò alla situazione e i lamenti sempre più deboli.
Il sole calava dietro le colline. Il tramonto era prossimo. Il buio avanzava. Comparve la luna a rischiarare la campagna e gli alberi dai rami spogli, che costeggiavano la via.
Mario avvertì lo stomaco borbottare. Accusò una pesante stanchezza. Ebbe fame e decise di rifocillarsi. Entrò nella solita fuligginosa bettola da solo questa volta, ma con il gallo dalle piume variegate, con l’intento appunto di saziarsi. Nonostante mancassero pochi chilometri dalla sua abitazione, Mario voleva presentarsi rinvigorito alla moglie: non affamato.
L’unico problema era quello di essere al verde. Non aveva un quattrino. Seduta stante decise e si convinse che, alla fin fine, barattare il gallo dalle variegate piume con una cena abbondante fosse una savia decisione, prima di presentarsi alla moglie a mani vuote.
- A pensarci bene- disse fra sé, - a cosa mi serve un gallo se ho tanta fame? –
Mario entrò nell’osteria e sedette in un posto d’angolo del locale, dalla luce fioca di alcune lanterne, tenendo ben stretto il pollastro dalle piume variopinte.
L’oste, una persona alta, magra, asciutta e dalla folta barba, gli si fece incontro e lo salutò con rispetto. Come se non lo avesse mai visto. Difatti, non era un cliente abituale Mario. Questa era la prima volta a mettere piede nell’osteria da solo e a tarda ora. Qualche volta si era presentato nella locanda in compagnia di barba grigia, ma da solo mai.
Il taverniere adocchiò il volatile e rivolgendosi al padrone gli disse:
“Di certo devi essere qui per festeggiare qualche avvenimento importante”.
Mario si limitò a rispondere in modo asciutto:
“Sì, è vero”.
E l’oste:
“Che cosa ti posso servire?” e rimase in attesa della risposta.
Mario non la tirò per le lunghe e gli propose il suo gallo colorato in cambio di un’abbondante cena. L’oste accettò. S’impossessò del gallo e gli servì un nutrito piatto di polenta e fagioli, con l’aggiunta di vari boccali di vino rosso rubino.
Mario più brillo che sobrio lasciò la bettola e s’incamminò verso casa.
Una voce:
“Sei abbastanza in forma da affrontare tua moglie?”.
Esitò perplesso. Tirò un profondo respiro. All’impatto di una folata di vento freddo che gli carezzò il volto e tutte le membra, si riprese, quando vide il fumo del camino del suo casolare perdersi nel cielo della notte gelida.
Mario cominciò a riflettere.
Forse quel giorno fu l’unico della sua vita chiamato a fare delle scelte da solo, ed ebbe il coraggio e la forza di farle. L’unica cosa che non si deve fare è quella di pensarci troppo a lungo sul da farsi.
Lo sbaglio consiste proprio in questo: lo faccio o non lo faccio? Consapevole o meno lui lo aveva fatto.
Non si era chiesto – farò la cosa giusta? Sto sbagliando? Mi rimprovererà mia moglie? -
Prima di presentarsi alla moglie Adele a mani vuote, Mario pensò di fare visita al suo vicino di casa: il compare Pietro dal soprannome barba-grigia.Era così che lo chiamavano in paese a causa della sua barba folta, lunga e grigia. Mario lo conosceva sin dall’infanzia e per lui, Pietro era rimasto l’idolo di sempre. Da giovane aveva girato il mondo in lungo e in largo. Rimasto solo e senza moglie non si era scagliato contro il destino. Aveva accettato la sorte con rassegnazione, continuava a vivere con serenità e non aveva perduto il suo buon umore di sempre.
Mario dal volto triste e infreddolito si presentò al suo cospetto.
“Allora”,
gli chiese barba-grigia sfregandosi le mani e con un sorrisetto ironico aggiunse:
“Com’è andata?”.
“Così, così“.
“Che vuoi dire così, così. Raccontami”.
Mario senza esitare gli riportò per filo e per segno tutto ciò che gli era accaduto durante la giornata.
“Compare, che il cielo ti protegga. Hai fatto davvero un bel lavoro! Tu sei restato l’ingenuo di sempre, ma l’ingenuità non ripaga.
“Cosa racconterai a tua moglie?”.
“Non lo so. Qualcosa mi inventerò”.
“Cosa vuoi inventarti tornando a casa senza mucca e senza un soldo?”.
“Sarebbero potuto andare peggio, compare. Avrei potuto subire qualche disgrazia. Invece, sono qui intero e per di più abbastanza tranquillo”.
“Di certo non sarai ben accolto da tua moglie” replicò Pietro, “ed io non vorrei essere al tuo posto”.
Mario, risoluto aggiunse:
”Che io abbia torto o ragione, mia moglie è una donna buona, brava e comprensiva, confido in lei e sono certo non mi rimprovererà”.
“Non ci credo, scommetto quanto vuoi” e continuò, “tua moglie non sarà contenta di come sono andate le cose, tornando a casa senza mucca e senza un soldo”.
Mario ebbe un attimo di smarrimento. Ma risoluto aggiunse:
“Vuoi scommettere che non sarà come tu dici?”.
“Certo”.
“Cosa proponi?”.
“Scommettiamo i trenta danari d’argento che ho. Li rischio tutti poiché sono certo che non sarà come che tu dici. Accetti?”.
“D’accordo“ disse Pietro barba-grigia e senza esitare allungò il braccio: “Qua la mano”.
L’intesa ci fu e l’accordo venne siglato all’antica: con la tradizionale stretta di mano.
Seduta sulla sedia di legno a fronte dell’ampio focolare dalle alte fiamme, l’anziana signora Adele attendeva l’arrivo del marito. Sola e silenziosa alla fioca luce della legna che illuminava l’ambiente, in compagnia del suo gatto dal manto bianco.
Stava per addormentarsi quando sentì la porta aprirsi e dal cigolio dei cardini capì chi fosse. Per assicurarsi meglio chiese ad alta voce:
“Sei tu, Mario?”
“Sì, sono io e sono tornato”.
Mario entrò per primo, Pietro lo seguì e restò nascosto nella penombra della stanza, in attesa di cosa fosse avvenuto tra moglie e marito.
“Buonasera, moglie mia”.
“Buonasera” rispose la donna.
“Finalmente sei tornato, ero in pensiero per te”.
“Com'è andata al mercato?“
“Né bene, né male”.
“Cosa vuoi dire”.
“Così, così”.
“Hai trovato da vendere la mucca?”.
Non vi fu risposta, se non un lungo silenzio.
“Non esitare Mario, racconta”.
Mario raccolse tutto il suo coraggio e cominciò:
“Sai, moglie mia, arrivato in città, il mercato lo avevano fatto il giorno prima e non ho potuto vendere la mucca”.
“E allora?”
“Sulla strada del ritorno l'ho barattata con un cavallo”.
“Con un cavallo?” esclamò Adele con grande stupore.
“E’ stata una buona idea, era proprio l’animale che ci voleva”.
Il marito proseguì:
“Strada facendo ho cambiato idea ed ho scambiato il cavallo con un maiale”.
“Ecco” rispose la donna, “è proprio quello che avrei fatto anch'io al posto tuo. Un cavallo sarebbe stato un impegno in più per noi due, anzi per te. Affrettati a cercare un posto sicuro dove poter fargli passare la notte”.
“Moglie non arrabbiarti, non ho portato a casa nemmeno il maiale”.
“Come mai?”
“Perché l'ho scambiato con una capra”.
“Bravo! Con la capra, oltre al latte e al formaggio, partorirà i capretti. Portala subito in un posto al sicuro“.
“Neppure la capra ti ho portato, l'ho barattata con una pecora”.
“Hai fatto benissimo”.
“La capra mi avrebbe dato troppo lavoro, ma la pecora mi darà la lana ed io ti confezionerò un caldo maglione per il prossimo inverno”.
“Non ti ho portato neppure la pecora, l'ho barattata con un'oca”.
“Ben fatto. La papera ci darà il grasso a sufficienza per condire l’insalata. Grazie. Grazie di cuore”.
Ed aggiunse:
“Che cosa avrei fatto di una pecora? Non ho né fuso, né telaio. Ma un'oca, un'oca grassa è proprio ciò che desideravo”.
“Non ho portato a casa neppure l'oca. L'ho scambiata con un gallo”.
“Caro”, disse la donna, “sei molto saggio. Un gallo vale più di un orologio, al quale occorre caricare la molla ogni giorno. Il gallo invece canta tutte le mattine e ci avverte che è tempo di alzarsi, lodare il Signore e di incominciare la giornata con serenità. Che cosa ne avremmo fatto di un'oca? E’ meglio il gallo“.
“Non ti ho portato neppure il gallo, perché mi è venuta una fame da lupo e sono stato obbligato a barattare il gallo per pagare il conto all’oste”.
“Ottima idea!” disse la donna.
“A pensarci bene noi non avremmo avuto bisogno di un gallo. Il pollastro ci avrebbe svegliato presto ogni mattina. Però, senza gli insistenti chicchirichì, possiamo restare a letto finché ci pare e piace“.
Mario, quantunque consapevole della smisurata comprensione della moglie, tirò un profondo sospiro. Le traversie della giornata si erano risolte a suo favore e nei migliori dei modi, soprattutto perché dalla mucca non avrebbe guadagnato la somma scommessa con Pietro.
Mario invitò il compare barba grigia a comparire e alla sua apparizione, al cospetto della moglie, con soddisfazione incominciò a parlare e concluse con grande orgoglio:
“Compare, hai sentito? Vai a prendere i tuoi trenta soldi d’argento e portameli. Ho vinto la scommessa”.
Mario contento e raggiante di felicità abbracciò la moglie Adele, mentre Piero si avviò a prendere i trenta scudi d’argento da rendere al compare.
Nino. C. da Rubba Recensioni
Fuori il vento ululava tra le vie deserte e scuoteva i rami nudi degli alberi. Al contrario della stagione invernale, durante l’estate il paesaggio sembrava uno spettacolo da fiaba.
Dentro la vecchia cascina, la tranquillità aleggiava nell’aria tra la coppia di anziani seduti a fronte del camino dalle alte fiamme: Adele e Mario.
All’improvviso, a rompere il silenzio fu l’anziana signora, la quale con tono di voce persuasivo incominciò:
“Caro marito mi è venuta un’idea. E’ il caso che tu vada in città a vendere una delle nostre due mucche.
“Non pensi che basti solo una a darci latte, formaggio e burro a sufficienza?”.
La donna dopo aver tirato un profondo respiro guardò il soffitto e a mani giunte continuò:
“Figli non ne abbiamo, i nipoti ci trascurano, non fanno niente per noi, non si dimostrano riconoscenti di ciò che possediamo e non si prendono cura della nostra anzianità.
“E’ arrivato il momento di risparmiare le forze e cercare di trascorrere i giorni della nostra vecchiaia con più tranquillità”.
La coppia abitava una vecchia fattoria lontana dalla città, situata alla periferia di una borgata. I due invecchiavano tranquillamente senza preoccuparsi del tempo che lentamente passava. Conducevano una vita semplice. La cascina era di loro proprietà, il bestiame domestico abbondava di polli, tacchini ed altri animali da cortile. Il tutto era più che sufficiente per i due. In più avevano un gruzzolo di soldi riposti nel cassetto di un vecchio armadio. Potevano con tranquillità attendere la fine dei loro giorni senza paura di finire in miseria, prima che giungesse il dolce abbraccio della morte.
Riguardo alla signora Adele, poche erano le volte che si allontanava dalla sua abitazione. Per andare in Chiesa, quando doveva macinare il frumento, oppure, quando da lontano avvistava davanti al mulino un folto numero di donne, nell’attesa del proprio turno per la macinatura di cereali. Occasione propizia per parlare o fare nuove conoscenze.
Per le donne il mulino rappresentava un punto d’incontro e di scambio di idee. Quando c’era molta gente ad aspettare il proprio turno, spesso compariva la moglie del mugnaio, la quale, per ingannare il tempo di attesa dei clienti, si rendeva utile nel raccontare storie di altri tempi.
Le novelle più richieste erano due e la moglie del mugnaio, secondo il numero delle donne presenti, raccontava o quella romantica della giovane sposa Milena, oppure il fascinoso episodio capitato a Teresa.
Teresa, una giovane donna in preda alla disperazione per la prematura dipartita del marito. Milena, con un preciso intento, vale a dire quello di sedare la voglia di partecipare ad un ballo da favola nel castello del conte. In entrambi i casi la medesima finalità: una precisa collocazione nella sfera del mistero.
La favola del principe ed il boscaiolo era poco gradita e la signora l’aveva cancellata dal suo repertorio narrativo, come quella dell’amore morboso del figlio del conte verso l’amata, dal tragico finale.A seguito dell’idea proposta dalla moglie Adele, Mario durante la notte rifletté e convenne che aveva ragione. Era proprio giusta la sua idea e decise di mettere in pratica il consiglio. Di mattino presto lasciò il letto, indossò gli abiti della domenica, si portò nella stalla, si accostò ad una delle due mucche, le circondò il collo con una corda di canapa e intraprese la via sterrata che conduceva alla città.
Durante il percorso Mario oltrepassò parecchi casolari solitari, abbastanza distanti l’un l’altro fra loro. Tutti con un capanno, dentro il quale stazionavano gli animali da cortile. In uno di essi, nel recinto attiguo all’abitazione, fu attratto dalla presenza di oche, caprette, maiali, e due puledri dal manto nero. I quali, agili e vigorosi correvano gioiosamente circuendo la staccionata del recinto. Animali, che Mario non aveva a casa sua e non gli sarebbe dispiaciuto possedere almeno una capra, un’oca oppure un cavallo.
Dopo tanto camminare, raggiunta la città si portò nel luogo dove si teneva il mercato, ma trovò il piazzale vuoto. Nessuna bancarella né uomini indaffarati nelle trattative.
Aveva sbagliato giorno?
S’informò da un freddoloso passante e questi gli rispose:
”Ogni primo martedì della settimana fanno la compra-vendita del bestiame. Oggi è mercoledì. Ti tocca aspettare. Oppure, ritornare la settimana prossima”.
- Pazienza - pensò Mario, - vuol dire che tornerò a casa con la mucca. La strada da percorrere è la stessa. Di certo non è più lunga al ritorno -.
Un po’ deluso e senza troppo riflettere riprese la via del ritorno. Dopo alcune ore di cammino si sentì stanco. Si fermò e sedette su un muricciolo di sassi al bordo della strada. Abbastanza pensieroso e muovendo il capo più volte si rimproverava così:
Avrei dovuto chiedere informazioni al compare barba grigia, che conosce tutti ed è sempre al corrente di tutto. Se fossi stato più accorto e meno precipitoso, mi sarei risparmiato la delusione della mancata vendita e la fatica di riportare la mucca a casa.
Abbandonò il muretto e riprese il cammino. Alzò lo sguardo dal selciato e da lontano avvistò un uomo, che conduceva un cavallo dalle briglie.
La strada per raggiungere la mia casa è ancora tanta e presto sarà notte - brontolò Mario. - Se continuo a tirare la mucca non arriverò a casa prima di domani. -
Un’idea:
-Il cavallo mi sarebbe molto più utile e comodo-, disse tra sé.
A pochi passi dallo sconosciuto, Mario lo fermò e gli chiese se avesse voluto scambiare la mucca con il suo cavallo. Il contadino senza esitare accettò e Mario tutto allegro montò in sella. Il puledro era giovane, scattante, ombroso e Mario non aveva tenuto conto della sua età.
Dopo circa mezz'ora al galoppo senza sella, incominciò a pentirsi dello scambio. Smontò da cavallo e continuò a camminare a piedi tenendo il puledro per le redini, ma con grande fatica.
Non riusciva a tenere il passo dell’animale. Il cavallo voleva correre, e per di più continuava ad impennarsi davanti ad ogni buca esistente sul piano sterrato della via.
- Ho sbagliato – e borbottò improperi. Ma il viso si illuminò di speranze quando vide venirgli incontro un campagnolo, seguito da un mansueto maiale grosso e grasso.
Una visione:
- Un chiodo vale di più di un diamante che brilla e non serve a niente - disse fra sé Mario. Incrociando il campagnolo lo fermò e gli propose di scambiare il suo cavallo con il maiale.
“Se a te va bene, accetto lo scambio”.
E così fu.
- Che bella idea ho avuto – pensò Mario e riprese il cammino. Ben presto notò che il grosso maiale essendo grasso si affaticava facilmente. Ad ogni quattro o cinque passi si bloccava e non voleva saperne di seguirlo.
Mario gli parlò, lo supplicò, l'ingiuriò, niente da fare! Tirò il maiale con una corda, lo spinse per dietro per farlo camminare, lo sculacciò, ma fu tutto inutile. Il suino continuava a grufolare e a restare fermo. All’improvviso si buttò di colpo a terra e cominciò a rotolarsi nella polvere. Non intendeva avanzare e seguitò a non volerlo seguire.
Dopo circa mezz’ora di attesa, lui seduto sopra un sasso, il maiale continuava a restare fermo. Questa volta Mario cominciò a scoraggiarsi sul serio, ma la fortuna venne dalla sua parte quando in lontananza si vide venire incontro un uomo con una capra dal mantello a chiazze di colore bianco-nero e dalle mammelle gonfie di latte.
La capra si muoveva abbastanza agilmente e di tanto in tanto saltellava festosamente.
-Ecco l'animale che ho sempre desiderato. E’ proprio quello che fa per me –.
Si portò la mano destra sulla testa più volte, sfiorandosi i pochi capelli grigi e pensò:
- preferisco una capra allegra e giocherellona a questo maiale grosso, grasso e pigro -.
A pochi passi dal contadino Mario lo salutò per primo. Lo fermò e con garbo si presentò:
“Buon pomeriggio amico”.
“Buon pomeriggio anche a te”.
“Da dove vieni?”.
“Dalla città e non vedo l’ora di arrivare a casa”.
Vi fu subito intesa fra i due e di comune accordo si scambiarono gli animali.
Per circa una mezz'ora tutto andò bene. Spesso la capra saltellava e Mario stette al gioco, ma stanco di assecondarla, di nuovo si pentì dello scambio.
Un miracolo:
Da lontano una nuvola di polvere. Grande fu la gioia di Mario quando vide un pastore, che allegramente avanzava fischiettando in testa al suo belante gregge, con due grossi cani da guardia che vigilavano la mandria.
Mario si fermò al bordo della strada e attese che il pastore arrivasse. Intanto pensò: – una pecora mi darà la lana ed è più mansueta e tranquilla di questa capra dispettosa -.
Avanzò la richiesta e il pastore acconsentì.
“Accetto di scambiare la tua capra con una delle mie pecore. E’ l’animale che mancava al mio gregge” e con sincerità aggiunse - scegliti l’animale che vuoi, buon uomo”.
E così avvenne.
Mario aveva pensato bene. La pecora si dimostrò tranquilla, l'esempio della mansuetudine. Non saltava, non correva, avanzava a piccoli passi. All’improvviso incominciò a belare e quanto più si allontanava dalla mandria più belava.
L’incessante belare continuava ed a Mario cominciò a dargli molto fastidio. Più si allontanava dal gregge e più la pecora voleva ritornare fra il branco. Più Mario la tirava, più frequenti ed acuti erano i lamenti.
- Che stupida bestia - gridò Mario ad alta voce e continuò a tirare la pecora, legata al collo da una corda, con tutte le sue forze. E pensò:- Anche questa volta è andata male. Bisogna che me ne liberi ad ogni costo -.
Arrivato nelle vicinanze di un vecchio casolare sentì un vocione gridare:
“La tua pecora rischia di morire strangolata se continui a tirarla dal collo”.
Il rimprovero proveniva da dietro un folto cespuglio dal quale sbucò un arzillo campagnolo dalla voce roca e dagli indumenti abbastanza discutibili. Il quale senza denti e con la pipa in bocca stringeva fra le braccia una grossa oca.
Mario non badò al rimprovero. Non si scoraggiò. Risoluto e deciso, di rimando gli gridò:
“Amico, se è come dici, dammi la tua oca in cambio della mia pecora“.
Detto fatto, il campagnolo accettò e il baratto avvenne.
Mario agguantò l'oca, la sistemò sotto il braccio destro e riprese il cammino soddisfatto dello scambio. La sua gioia non durò a lungo. L’affare non fu dei migliori. A tenere a bada il volatile si dimostrò una vera impresa.
Diede prova di un animale antipatico l’oca: schiamazzava, si dibatteva, roteava il becco da tutte le parti, agitava le zampe, le ali e cercava continuamente di voler liberarsi dalla stretta e di volar via.
Fu una lotta continua fra lui e la papera. Stanco di combattere, e indignato più del solito, Mario dichiarò ad alta voce:
- Le oche sono proprio stupide.
Ora capisco perché mia moglie non ha mai voluto che schiamazzassero nel cortile –.
L’ingenuo anziano, dopo tutte le disavventure subite, cominciò a sentirsi stanco. Soprattutto confuso. Avanzava lento, silenzioso e deluso. Non sapeva più cosa pensare. Alla presenza di un grosso sasso bianco sedette e si riposò.
Una voce:
“Non disperare. La vita è un’altalena: oggi in basso e domani in alto. Saper prendere con filosofia tutto ciò che accade ogni giorno è solo guadagno. Riprendi il viaggio”.
Giunto nei pressi di una piccola casetta verde, attigua alla quale una donna impegnata a distribuire il mangime agli animali.
Mario, con la papera sotto il braccio si fermò a parlare con l’anziana signora. Di spicco tra gli animali da cortile vi erano parecchi galli dalle variegate piume. Mario se ne innamorò subito ed osò la richiesta:
“Vuoi la mia oca in cambio di uno dei tuoi galli colorati?”. L’anziana acconsentì e lo scambio avvenne.
Gli ritornò l’ottimismo con il quale era partito di mattino presto per andare in città a vendere la mucca. Si sentì soddisfatto Mario. Contento e felice riprese a camminare con tranquillità. Il gallo di tanto in tanto reclamava con voce roca. Allentò la presa e il pollastro spiccò un salto e prese la fuga. Mario lo rincorse con tutta la forza delle gambe, lo acciuffò e gli gridò:
“Vanitoso gallaccio, ora ti sistemo io” e gli legò le zampe.
Il pollo dalle piume colorate, con le zampe legate e la testa all'ingiù, si rassegnò alla situazione e i lamenti sempre più deboli.
Il sole calava dietro le colline. Il tramonto era prossimo. Il buio avanzava. Comparve la luna a rischiarare la campagna e gli alberi dai rami spogli, che costeggiavano la via.
Mario avvertì lo stomaco borbottare. Accusò una pesante stanchezza. Ebbe fame e decise di rifocillarsi. Entrò nella solita fuligginosa bettola da solo questa volta, ma con il gallo dalle piume variegate, con l’intento appunto di saziarsi. Nonostante mancassero pochi chilometri dalla sua abitazione, Mario voleva presentarsi rinvigorito alla moglie: non affamato.
L’unico problema era quello di essere al verde. Non aveva un quattrino. Seduta stante decise e si convinse che, alla fin fine, barattare il gallo dalle variegate piume con una cena abbondante fosse una savia decisione, prima di presentarsi alla moglie a mani vuote.
- A pensarci bene- disse fra sé, - a cosa mi serve un gallo se ho tanta fame? –
Mario entrò nell’osteria e sedette in un posto d’angolo del locale, dalla luce fioca di alcune lanterne, tenendo ben stretto il pollastro dalle piume variopinte.
L’oste, una persona alta, magra, asciutta e dalla folta barba, gli si fece incontro e lo salutò con rispetto. Come se non lo avesse mai visto. Difatti, non era un cliente abituale Mario. Questa era la prima volta a mettere piede nell’osteria da solo e a tarda ora. Qualche volta si era presentato nella locanda in compagnia di barba grigia, ma da solo mai.
Il taverniere adocchiò il volatile e rivolgendosi al padrone gli disse:
“Di certo devi essere qui per festeggiare qualche avvenimento importante”.
Mario si limitò a rispondere in modo asciutto:
“Sì, è vero”.
E l’oste:
“Che cosa ti posso servire?” e rimase in attesa della risposta.
Mario non la tirò per le lunghe e gli propose il suo gallo colorato in cambio di un’abbondante cena. L’oste accettò. S’impossessò del gallo e gli servì un nutrito piatto di polenta e fagioli, con l’aggiunta di vari boccali di vino rosso rubino.
Mario più brillo che sobrio lasciò la bettola e s’incamminò verso casa.
Una voce:
“Sei abbastanza in forma da affrontare tua moglie?”.
Esitò perplesso. Tirò un profondo respiro. All’impatto di una folata di vento freddo che gli carezzò il volto e tutte le membra, si riprese, quando vide il fumo del camino del suo casolare perdersi nel cielo della notte gelida.
Mario cominciò a riflettere.
Forse quel giorno fu l’unico della sua vita chiamato a fare delle scelte da solo, ed ebbe il coraggio e la forza di farle. L’unica cosa che non si deve fare è quella di pensarci troppo a lungo sul da farsi.
Lo sbaglio consiste proprio in questo: lo faccio o non lo faccio? Consapevole o meno lui lo aveva fatto.
Non si era chiesto – farò la cosa giusta? Sto sbagliando? Mi rimprovererà mia moglie? -
Prima di presentarsi alla moglie Adele a mani vuote, Mario pensò di fare visita al suo vicino di casa: il compare Pietro dal soprannome barba-grigia.Era così che lo chiamavano in paese a causa della sua barba folta, lunga e grigia. Mario lo conosceva sin dall’infanzia e per lui, Pietro era rimasto l’idolo di sempre. Da giovane aveva girato il mondo in lungo e in largo. Rimasto solo e senza moglie non si era scagliato contro il destino. Aveva accettato la sorte con rassegnazione, continuava a vivere con serenità e non aveva perduto il suo buon umore di sempre.
Mario dal volto triste e infreddolito si presentò al suo cospetto.
“Allora”,
gli chiese barba-grigia sfregandosi le mani e con un sorrisetto ironico aggiunse:
“Com’è andata?”.
“Così, così“.
“Che vuoi dire così, così. Raccontami”.
Mario senza esitare gli riportò per filo e per segno tutto ciò che gli era accaduto durante la giornata.
“Compare, che il cielo ti protegga. Hai fatto davvero un bel lavoro! Tu sei restato l’ingenuo di sempre, ma l’ingenuità non ripaga.
“Cosa racconterai a tua moglie?”.
“Non lo so. Qualcosa mi inventerò”.
“Cosa vuoi inventarti tornando a casa senza mucca e senza un soldo?”.
“Sarebbero potuto andare peggio, compare. Avrei potuto subire qualche disgrazia. Invece, sono qui intero e per di più abbastanza tranquillo”.
“Di certo non sarai ben accolto da tua moglie” replicò Pietro, “ed io non vorrei essere al tuo posto”.
Mario, risoluto aggiunse:
”Che io abbia torto o ragione, mia moglie è una donna buona, brava e comprensiva, confido in lei e sono certo non mi rimprovererà”.
“Non ci credo, scommetto quanto vuoi” e continuò, “tua moglie non sarà contenta di come sono andate le cose, tornando a casa senza mucca e senza un soldo”.
Mario ebbe un attimo di smarrimento. Ma risoluto aggiunse:
“Vuoi scommettere che non sarà come tu dici?”.
“Certo”.
“Cosa proponi?”.
“Scommettiamo i trenta danari d’argento che ho. Li rischio tutti poiché sono certo che non sarà come che tu dici. Accetti?”.
“D’accordo“ disse Pietro barba-grigia e senza esitare allungò il braccio: “Qua la mano”.
L’intesa ci fu e l’accordo venne siglato all’antica: con la tradizionale stretta di mano.
Seduta sulla sedia di legno a fronte dell’ampio focolare dalle alte fiamme, l’anziana signora Adele attendeva l’arrivo del marito. Sola e silenziosa alla fioca luce della legna che illuminava l’ambiente, in compagnia del suo gatto dal manto bianco.
Stava per addormentarsi quando sentì la porta aprirsi e dal cigolio dei cardini capì chi fosse. Per assicurarsi meglio chiese ad alta voce:
“Sei tu, Mario?”
“Sì, sono io e sono tornato”.
Mario entrò per primo, Pietro lo seguì e restò nascosto nella penombra della stanza, in attesa di cosa fosse avvenuto tra moglie e marito.
“Buonasera, moglie mia”.
“Buonasera” rispose la donna.
“Finalmente sei tornato, ero in pensiero per te”.
“Com'è andata al mercato?“
“Né bene, né male”.
“Cosa vuoi dire”.
“Così, così”.
“Hai trovato da vendere la mucca?”.
Non vi fu risposta, se non un lungo silenzio.
“Non esitare Mario, racconta”.
Mario raccolse tutto il suo coraggio e cominciò:
“Sai, moglie mia, arrivato in città, il mercato lo avevano fatto il giorno prima e non ho potuto vendere la mucca”.
“E allora?”
“Sulla strada del ritorno l'ho barattata con un cavallo”.
“Con un cavallo?” esclamò Adele con grande stupore.
“E’ stata una buona idea, era proprio l’animale che ci voleva”.
Il marito proseguì:
“Strada facendo ho cambiato idea ed ho scambiato il cavallo con un maiale”.
“Ecco” rispose la donna, “è proprio quello che avrei fatto anch'io al posto tuo. Un cavallo sarebbe stato un impegno in più per noi due, anzi per te. Affrettati a cercare un posto sicuro dove poter fargli passare la notte”.
“Moglie non arrabbiarti, non ho portato a casa nemmeno il maiale”.
“Come mai?”
“Perché l'ho scambiato con una capra”.
“Bravo! Con la capra, oltre al latte e al formaggio, partorirà i capretti. Portala subito in un posto al sicuro“.
“Neppure la capra ti ho portato, l'ho barattata con una pecora”.
“Hai fatto benissimo”.
“La capra mi avrebbe dato troppo lavoro, ma la pecora mi darà la lana ed io ti confezionerò un caldo maglione per il prossimo inverno”.
“Non ti ho portato neppure la pecora, l'ho barattata con un'oca”.
“Ben fatto. La papera ci darà il grasso a sufficienza per condire l’insalata. Grazie. Grazie di cuore”.
Ed aggiunse:
“Che cosa avrei fatto di una pecora? Non ho né fuso, né telaio. Ma un'oca, un'oca grassa è proprio ciò che desideravo”.
“Non ho portato a casa neppure l'oca. L'ho scambiata con un gallo”.
“Caro”, disse la donna, “sei molto saggio. Un gallo vale più di un orologio, al quale occorre caricare la molla ogni giorno. Il gallo invece canta tutte le mattine e ci avverte che è tempo di alzarsi, lodare il Signore e di incominciare la giornata con serenità. Che cosa ne avremmo fatto di un'oca? E’ meglio il gallo“.
“Non ti ho portato neppure il gallo, perché mi è venuta una fame da lupo e sono stato obbligato a barattare il gallo per pagare il conto all’oste”.
“Ottima idea!” disse la donna.
“A pensarci bene noi non avremmo avuto bisogno di un gallo. Il pollastro ci avrebbe svegliato presto ogni mattina. Però, senza gli insistenti chicchirichì, possiamo restare a letto finché ci pare e piace“.
Mario, quantunque consapevole della smisurata comprensione della moglie, tirò un profondo sospiro. Le traversie della giornata si erano risolte a suo favore e nei migliori dei modi, soprattutto perché dalla mucca non avrebbe guadagnato la somma scommessa con Pietro.
Mario invitò il compare barba grigia a comparire e alla sua apparizione, al cospetto della moglie, con soddisfazione incominciò a parlare e concluse con grande orgoglio:
“Compare, hai sentito? Vai a prendere i tuoi trenta soldi d’argento e portameli. Ho vinto la scommessa”.
Mario contento e raggiante di felicità abbracciò la moglie Adele, mentre Piero si avviò a prendere i trenta scudi d’argento da rendere al compare.
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